Dopo il tiro
- Scritto da G.P. Sirtori
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ETICA VENATORIA
DOPO IL TIRO
Come comportarsi dopo lo sparo
Siamo al momento della verità.
La carabina è spinata e l’immagine del capo assegnato compare nel nostro reticolo.
Concentrazione ed emozione.
Una ridda di considerazioni passano in quel momento nel nostro cervello: bisogna valutare la propria capacità, la distanza. L’altitudine, il vento, la posizione del selvatico, la taratura della carabina, l’angolo di sito e memorizzare con riferimenti precisi il posto dove si trova il nostro bersaglio.
Il bravo accompagnatore intanto conferma che quello è il capo giusto, quello che ci è stato assegnato e magari, se c’è la possibilità e il tempo, col telemetro ci dà l’esatta distanza.
Il reticolo è ben fisso, immobile sull’area vitale e la progressiva, misurata pressione sul grilletto fa partire il colpo.
Se il calibro utilizzato non scuote troppo l’arma e la nostra spalla, è possibile osservare la reazione al colpo dell’animale, raggiunto dalla nostra palla, nell’ottica di puntamento.
Taluni riescono anche ad avvertire il "ciak" prodotto dal proiettile all’impatto sul corpo dell’animale.
Quando c’è stata la buona coincidenza di tutte le variabili influenti sul tiro possiamo vedere la nostra preda cadere sul posto, o dopo pochi passi, coadiuvati in questo dall’accompagnatore che ha seguito attentamente l’abbattimento.
A questo punto la tensione si allenta, ma l’attenzione non deve calare. Buona norma è ricaricare immediatamente, non muovesi dal posto e restare celati, perché bisogna essere pronti a intervenire di nuovo con un eventuale colpo di grazie, per evitare inutili sofferenze qualora il colpo non abbia prodotto l’effetto voluto, e l’animale si rialzi, per impedirne l’allontanamento. L’immobilità è pure molto importante affinché il capo colpito,e gli eventuali altri animali nelle vicinanze, non possano associare il "botto" del colpo alla presenza del cacciatore.
Si ritiene opportuno che l’attesa si debba protrarre per almeno 15 – 20 minuti prima di dirigersi alla volta del capo abbattuto.
Lo shock provocato dal proiettile può – non sempre – provocare la morte immediata e far restare sul posto l’animale fulminato. Frequentemente, però, anche un colpo ben piazzato nell’area cuore – polmoni può determinare una reazione immediata al dolore provocando una fuga precipitosa, per lo più di breve durata, ma capace di far scomparire alla vista il nostro capo fintantoché il crollo della pressione sanguigna nelle sue arterie cerebrali non lo faccia cadere, e farci dubitare di non averlo colpito.
Se la morte non avviene immediatamente, c’è sempre anche la possibilità che il capo si rialzi e si possa allontanare: questo può accadere più facilmente se il cacciatore si fa scoprire, provocando una scarica di adrenalina che consente all’animale, facendo ricorso alle ultime attività vitali, la sua fuga. Questo fatto è più facile che accada quando l’animale è già in allarme perché ha percepito la presenza di un pericolo, ed è carico di adrenalina. È assai più probabile che cada sul posto il capo che pascola tranquillo, indisturbato, senza alcun motivo di apprensione.
Se il colpo è stato efficace in breve tempo l’ungulato cercherà, anche per il venir meno delle forze, di nascondersi o acquattarsi fino al sopraggiungere della morte. È doveroso lasciarlo morire in pace,. Senza cercare di raggiungerlo troppo rapidamente, perché rischieremmo di farlo allontanare terrorizzato, e di complicare poi il recupero. Solo i colpi che interessano il sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale) bloccano sul posto l’animale.
Le regole di immobilità, silenzio e concentrazione sono fondamentali per una buona conclusione dell’azione di caccia e di "doveroso rispetto" per la selvaggina.
Le reazioni al colpo descritte su molti libri o riviste di caccia non sono facilmente inquadrabili (come ogni fenomeno biologico), anche se possono esserci di aiuto nell’individuazione della possibile zona d’impatto del proiettile. Sembrano più facilmente riscontrabili nei cervidi, un po’ meno nei camosci e ancor meno nel cinghiale.
Prima di muoversi, considerato che spesso la forte emozione gioca brutti scherzi, è doveroso rimettere in sicura l’arma; solo quando si è raggiunto l’animale, dopo la doverosa attesa, con l’arma carica comunque per ogni eventuale necessità, e se ne è constatata la morte, secondo le buone tradizioni mitteleuropee, che molto hanno da insegnarci a proposito di tradizione ed etica venatoria, il cacciatore si toglie il cappello e corica sul fianco destro l’animale, Vuole essere un segno di ringraziamento per le emozioni che ci ha concesso di provare e di rispetto per il sacrificio di questo esemplare selvatico.
Questi gesti rituali servono anche a dimostrare e affermare una cultura venatoria che caratterizza il Cacciatore di ungulati, che oggi può rivestire a testa alta il nuovo ruolo di gestore del patrimonio faunistico cacciabile, compatibile con i principi della conservazione, dello sviluppo e di un razionale utilizzo di queste risorse rinnovabili, patrimonio indisponibile delle Stato cui ci è concesso di accedere.
Una volta constatata la correttezza del prelievo, l’accompagnatore spezza con le mani (non con il coltello!) due piccoli rametti verdi da un albero: uno di questi viene posto il bocca al capo abbattuto, come "ultimo pasto" che il cacciatore riconoscente offre alla sua preda (vale solo per gli erbivori, quindi non per il cinghiale), mentre l’altro rametto viene bagnato col sangue uscito dal foro di entrata del proiettile e poi, tenuto posato sulla lama del coltello o sul cappello dell’accompagnatore, viene offerto al Cacciatore, che se lo metterà sul lato destro del cappello. L’accompagnatore stringe la mano al cacciatore complimentandosi con lui per la buon esito della caccia; nella tradizione europea si usa complimentarsi con la formula tedesca WEIDMANNSHEIL!, alla quale si risponde WEIDMANNSDANKE.
Questa tradizione, e in genere ogni tradizione che si ritualizza in gesti significativi, mai abbandonata nella cultura venatoria mitteleuropea, ha certamente contribuito a mantenere alto il rispetto per il patrimonio faunistico e per i cacciatori che esercitano responsabilmente questa forma di caccia, ma anche per tutti glia altri, perché la tradizione si allarga anche a tutte le altre forme di caccia. Viene perfino indicata l’essenza della fronda arborea da utilizzare per il BRUCK: quercia, ontano, cirmolo, mugo, abete, ai quali possiamo aggiungere le nostre tipiche essenze italiane, come il leccio e l’alloro per l’Appennino e il ginepro.
Non bisogna considerare queste forme rituali come espressine di una cultura che non si appartiene, ma semplicemente come un modello radicato di tradizione venatoria preesistente alla nostra, quindi parte essenziale della caccia di specializzazione di montagna.
Concludo riportando un pensiero di Roberto Gatti:
"In questo caso si può ben affermare che la forma…. è sostanza, specialmente nell’attuale momento storico… in cui la caccia ha bisogno di rifarsi un’immagine".
G. P. Sirtori