Etica venatoria e responsabilità individuale
- Scritto da Flavio Galizzi
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Uno dei diversi aspetti dell’etica, intesa principalmente come riflessione sul comportamento individuale e di gruppo nei vari campi del sociale, ma anche dell’ambiente, e in senso più specifico rivolta all’ambito venatorio, è il senso di responsabilità.
Un volto della coscienza individuale che ci aiuta e ci guida non solo nei comportamenti e nelle azioni, ma ancor prima nella valutazione delle scelte da adottare nell’esercizio di una funzione o di una pratica, quindi anche nella pratica venatoria.
Proviamo a fare delle considerazioni di come il senso di responsabilità emerga, o venga soffocato da altri istinti, nei confronti dell’agire e delle scelte di un cacciatore oggi.
Quando e come al cacciatore è necessario ricorrere ad una riflessione correlata al senso di responsabilità?
Senza dubbio tale aspetto emerge fin dal primo momento in cui si fa la scelta di diventare "cacciatore", oggi ancor più di un tempo, o ancor meglio quando si decide di continuare ad essere cacciatore oggi per chi lo è già, in un contesto socio – ambientale profondamente modificato rispetto anche solo agli ultimi decenni del secolo appena trascorso. Il tema "ambientale", delle risorse energetiche e delle risorse sostenibili, ha modificato molto il modo di porci nei confronti dell’ambiente, e ciò vale per ciascuno di noi, poiché l’attività venatoria, per sua natura, ha un forte impatto in tal senso, sia come sfruttamento di una risorsa collettiva, sia come azione di fatto "cruenta", sia come immagine nell’opinione pubblica e nell’immaginario collettivo.
In tale contesto è da considerarsi assolutamente ridicolo oggi anche solo pensare che la caccia possa essere considerata o comparata ad un’attività sportiva, se non per il fatto che si svolge all’aria aperta e contempla un’attività fisica generale paragonabile a quella di uno sport. Coloro che volessero continuare a considerarla tale è bene che rivolgano il loro interesse e il loro ardore verso attività sportive veramente tali, in cui la sfida e il confronto leale con sé stessi, con un avversario o con l’ostilità di un ambiente estremo per certi sport "off limits", sia veramente tale, a partire dalle semplici passeggiate nel verde fino alla sfida degli 8.000 metri.
Detto questo, emerge come per molti cacciatori, la maggior parte di quelli che sono diventati tali prima degli anni ’80, sia necessaria una sorta di "riconversione", e che si facciano carico di assumere un nuovo modo di porsi nei confronti dell’oggetto del loro interesse. Non c’è campo dell’agire, non c’è professione in cui non si senta la necessità di aggiornarsi.
Cosa s’intende con ciò?
Innanzitutto la presa di coscienza piena che l’oggetto di interesse del cacciatore, la fauna selvatica, è nella maggior parte dei casi un "bene comune", indisponibile, un bene collettivo, di cui viene autorizzato l’utilizzo e lo sfruttamento previe determinate precise condizioni; in primis la sostenibilità del prelievo, una conoscenza approfondita dell’oggetto del prelievo, e una correttezza e trasparenza d’azione.
Se un tempo, per conseguire l’abilitazione venatoria e il porto d’armi per uso caccia, bastava conoscere le principali norme derivanti dalle leggi venatorie e la legislazione in materia di armi, e riconoscere le specie animali oggetto di prelievo, oggi un serio esame per conseguire l’abilitazione venatoria deve richiedere obbligatoriamente qualche conoscenza in più. Deve prevedere innanzitutto un corso approfondito e selettivo che comprenda anche materie complementari alla caccia, ma fondamentali per l’assunzione di quella responsabilità indispensabile di cui si diceva all’inizio, come l’"ecologia del bosco", l’"etologia animale", la "dinamica delle popolazioni faunistiche", la "gestione forestale" e la "gestione faunistica", oltre a conoscenze di base sul "primo soccorso", sulla "sicurezza in montagna",
sulla "conoscenza e corretto impiego delle armi" con particolare riguardo alla "sicurezza", sull’"etica venatoria", sulla "storia ed evoluzione della caccia", sul "trattamento della spoglia" per un corretto
utilizzo alimentare e/o commerciale delle carni degli animali prelevati (previsto oggi anche dalla normativa europea), e per i veri appassionati aggiungerei anche qualche conoscenza sulla flora e sulla
vegetazione dei comparti montani in cui si opera, senza trascurare qualche ricetta tradizionale e regionale sull’utilizzo culinario di queste preziose risorse alimentari.
Un percorso che garantisca l’acquisizione di una dignitosa e approfondita "cultura venatoria" in senso generale, per una corretta maturazione personale e responsabile sui temi delicati della "gestione venatoria" che viene affidata al cacciatore.
Vi sono riviste serie e specializzate che trattano di tutto ciò, e molti cacciatori seguono con passione e interesse tutti gli argomenti di volta in volta trattati per un auto-aggiornamento che ritengono fondamentale, perché le condizioni ambientali sono in continua trasformazione, così come la conoscenza della fauna, le tecniche di prelievo, e ciò che poteva essere valido un anno, pian piano, con gli anni e le trasformazioni in atto, specialmente in montagna, potrebbe modificarsi.
Non bisogna pensare di sapere, bensì è necessario pensare di "voler saperne di più", con la curiosità indispensabile di chi si vuole aggiornare su una materia in continua evoluzione. Non basta cambiarsi d’abito se non si è provveduto a cambiare mentalità. Forse ci vorrebbe un po’ più di umiltà, da parte di ciascuno.
Tutti aspetti fondamentali per una corretta acquisizione di una forte e rinnovata coscienza venatoria che si esprima in un profondo senso di responsabilità nei confronti del contesto socio – eco - ambientale in cui si opera, e nei confronti della fauna tutta, affinché sia manifesto un serio e riconosciuto "valore gestionale" dell’operato dei cacciatori, che va ben oltre il puro "sfruttamento" di questa risorsa.
Solo così potremo far conoscere all’opinione pubblica, con un partecipato senso di responsabilità anche individuale, le numerose attività di monitoraggio e controllo del territorio che i cacciatori svolgono nel corso delle stagioni, a partire dal giorno dopo la chiusura della caccia, in cui il lavoro di analisi e valutazione dei dati biometrici e dei consuntivi occupa tutto il periodo che precede l’organizzazione della mostra di gestione faunistica. Uno spaccato del nostro lavoro che solamente inquadrata in un più ampio quadro "gestionale" potrebbe trovare quel consenso generale auspicato e di visibilità anche da parte della gente comune.
Una rinnovata coscienza gestionale seria dell’attività venatoria diviene un valore aggiunto di cui non possiamo più fare a meno, nessuno di noi, qualsiasi specializzazione venatoria eserciti; diventa la "carta d’identità" del mondo venatorio, specie per coloro che operano in un contesto alpino di estremo interesse faunistico, delicato e di elevata specializzazione, i cui equilibri sono sempre da mettere a fuoco.
Solo in questo modo possiamo presentare la nostra attività gestionale, di nicchia e proprio per questo delicata e costantemente sotto la lente del legislatore e dell’opinione pubblica, in maniera che possa essere compresa anche dai giovani, affinché possa essere vista come opportunità culturale e valoriale condivisibile per un riavvicinamento di molti di loro alla montagna, carica di quei valori ambientali e culturali di cui dobbiamo essere anche noi degni portatori.
Etica e responsabilità assume quindi, per il cacciatore di montagna, anche questo valore: la presa di coscienza di una nuova funzione del cacciatore. Non più semplice beneficiario di un generico diritto di uso privato di un bene pubblico, bensì soggetto attivo nella gestione di un patrimonio collettivo di cui sia in grado, in ogni momento, di rendere conto alla collettività, e nei confronti del quale sappia essere vigile custode prima che privilegiato fruitore.