Etica venatoria e consapevolezza
- Scritto da Flavio Galizzi
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Troppo spesso, da parte di quella frangia di cacciatori che continua ad essere restia a riconoscere elementi valoriali ed etici della persona come aspetti fondanti di una visione moderna della caccia e dell’identità del cacciatore, si tende a ridurre l’aspetto etico della caccia a semplice fatto estetico, di immagine, come l’abbigliamento, il gesto dell’ultimo pasto, il modo di trasportare la spoglia. Questi ne costituiscono certamente l’involucro, l’esteriorità; ma la sostanza?
Esiste un modo condiviso di valutare l’eticità sostanziale di un comportamento? Penso di no, in quanto, come recita un vecchio adagio, "l’abito non fa il monaco", e la sostanza non sempre coincide con la forma.
Ho già parlato, in alte riflessioni, della responsabilità individuale e sociale dell’essere cacciatore. Oggi mi vorrei soffermare sulla "consapevolezza", aspetto non secondario dell’eticità dell’essere cacciatore.
Prendo a prestito da un sito internet: "La consapevolezza è una condizione in cui la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona, in un uno coerente. È quel tipo di sapere che dà forma all'
etica, alla condotta di vita, alla disciplina, rendendole autentiche."
Cosa significa "consapevolezza" riferita alla caccia e al cacciatore moderno?
Credo sia un aspetto che sottolinea e marca innanzitutto una notevole differenza con atteggiamenti passati, legati in maniera semplicistica alla "tradizione" senza averne colto i profondi del termine, di per sé assai importanti.
Per le mie conoscenze, seppur limitate a mezzo secolo di storia di caccia e di cacce per pratica diretta, ma che affondano le radici ben oltre la metà del secolo passato, la pratica venatoria non ha mai avuto dimensioni conoscitive marcate, sotto l’aspetto ecologico e scientifico, che andassero oltre la dimensione geografica del proprio territorio e delle proprie montagne, rivolta a poche specie, e per lo più ridotta ad una pratica puramente utilitaristica legata allo sfruttamento delle risorse locali, cui veniva peraltro dato il giusto valore. Tutte le tecniche di caccia erano lecite, la selvaggina era un bene non da custodire ma da "sfruttare", a volte vista come un problema, forse per giustificarne in qualche modo il prelievo, mentre l’ambiente era un semplice contenitore, per la verità molto ben curato, spesso da saccheggiare. Pochi cacciatori illuminati riuscivano ad avere una visione più ampia, e cogliere l’aspetto dell’intreccio inscindibile tra ambiente e fauna, tra pressione venatoria e compatibilità ambientale del prelievo, tra dinamica delle popolazioni e risorse trofiche, le cui basi scientifiche hanno cominciato ad assumere valenza fondamentale solo negli ultimi decenni. Per questi ultimi, quella che noi oggi definiamo correttamente come "passione venatoria", era la nobilitazione di un istinto atavico, che riconciliava l’uomo con un passato, oltre il tempo della storia sociale dell’uomo, riallacciando i fili invisibili della sua origine con la sua storia evolutiva.
L’assunto per cui molti cacciatori tendono ancora oggi a identificare i valori della caccia con la tradizione, così semplicemente espressa senza spiegazioni e un riordino delle basi di conoscenza, non è più sufficiente.
E’ una visione riduttiva che, se mal interpretata, o ancor peggio volontariamente assunta come scusante, non convince del tutto, e rischia di delegittimare l’attività venatoria nel suo insieme se non viene declinata sotto una luce scientificamente accettabile, e sostenibile, quindi anche consapevole.
La caccia, senza l’aggiunta dell’aspetto etico, non può assumere pienamente valenza di attività gestionale sostenibile, ed essere quindi legittimata appieno tra le attività ambientaliste.
Prenderò a prestito, per meglio farmi capire da quelli della mia generazione, due definizioni "storiche" utilizzate per caratterizzare la benevolenza o meno di un’azione, un gesto, una scelta, nei termini di consapevolezza: "piena avvertenza" e "deliberato consenso". Mi perdonino coloro che ne conoscono la fonte, ma credo che per gli altri, come per loro, possano rendere pienamente il senso del termine.
Piena avvertenza significa, nel nostro caso, che si deve avere chiara conoscenza di ciò che si va a fare, dell’impatto che l’azione di caccia ha nel contesto in cui la si esercita, sia in termini specifici dell’oggetto del nostro interesse venatorio che in termini generali di contesto eco-ambientale in cui si svolge.
Deliberato consenso significa che deve essere chiaro al cacciatore che il suo intervento è una scelta volontaria, per la quale ne assume la totale e piena responsabilità, sia individuale che sociale.
Il concetto di sfruttamento di una risorsa e il concetto di protezione totale non sono rotaie di uno stesso binario; possono essere addirittura divergenti. Il primo rischia di divenire impoverimento, come la storia ci ha ampiamente dimostrato e continua a documentare, e il secondo cieca protezione tout court, con conseguenze a volte disastrose: entrambe senza futuro. Lo sfruttamento nasce dall’istinto di avidità, che soggiace al concetto di arricchimento ad ogni costo, propugnando una sorta di randagismo sfrenato sempre alla ricerca di nuove risorse da saccheggiare. Il secondo tende a congelare una situazione, che di per sé, proprio per il suo intrinseco aspetto dinamico, non può che evolversi senza controllo, quindi con effetti imprevedibili; basti pensare, in scala planetaria, alle grandi estinzioni. L’uomo ha bisogno di disegnare il proprio futuro e la responsabilità di governarlo, per cui la via maestra, tra i due estremi, non può essere che quella di un utilizzo sostenibile delle risorse, con consapevolezza ed equilibrio, rimodellabile ad ogni percezione di rischio, con una certa scientificità, dentro un rapporto corretto tra intervento umano ed equilibrio ambientale, in un contesto appunto sostenibile.
E’ ovvio che la ricerca di equilibrio può comportare anche errori, ma questi fanno parte del percorso, e in questi casi è questa consapevolezza che ci aiuta a superarli. Chi non accetta la sfida, chi non accetta di poter sbagliare propugnando un cieco protezionismo, si infila in un tunnel cieco. E questo purtroppo accade anche nella pratica venatoria, oltrepassando i confini del lecito per sconfinare nel bracconaggio, un vicolo cieco senza uscita.
Dove ci conduce tale riflessione?
A ribadire quanto sia fondamentale l’approfondimento, da parte di ciascuno, delle proprie conoscenze, non solo limitate alla conoscenza superficiale delle specie oggetto di caccia, confondendo il "riconoscere" con il "conoscere", ma di tutte le specie che concorrono a costituire quel contesto eco-ambientale in cui noi andiamo ad esercitare la caccia. Sia a casa nostra, di cui in ogni caso non sempre le conoscenze sotto questo profilo sono sufficientemente ampie, sia, e a maggior ragione in quanto non possiamo delegare ad altri tale responsabilità individuale, che deve essere sempre e comunque un fatto di coscienza, quando ci spostiamo in contesti diversi, prossimi o lontani.
Questa "consapevolezza" ci deve spingere, specialmente laddove si è giunti ad avere abilitazioni "ope legis", senza corsi, per effetto di diritti acquisiti, a desiderare di aggiornarci, direi addirittura a pretendere di "essere aggiornati". Dobbiamo essere noi a disegnare il nostro futuro, e lo dobbiamo fare con coscienza. I giovani, se vogliamo che si avvicinino alla caccia, la devono vedere come un mondo aperto, pieno di fascino e di mistero, ricco di emozioni positive, che necessita anche di rispetto per la "consapevolezza" che si deve avere della delicatezza e fragilità del contesto dentro il quale si esercita, oltre che di competenze e conoscenze all’altezza della sua dimensione.
Un tratto, questo della consapevolezza, che ci riallaccia con quella parte della tradizione seria ed onesta che ha accompagnato la "buona caccia" lungo il sentiero tortuoso della storia dell’uomo.
Il cacciatore moderno non si deve mai accontentare di quello che sa, ma da lì deve sentirsi spinto a voler migliorare le proprie competenze e conoscenze, per maturare una consapevolezza reale del suo ruolo, che a questo punto diventa un ruolo a pieno titolo "ambientalista".
Flavio Galizzi