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Alessandro Bassignana

Alessandro Bassignana

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Il cinghiale in Zona Alpi

Quando si affronta l’argomento caccia una delle cose che più spesso si leggono o sentono dire è come questa in Italia sia stata…salvata dal cinghiale!
Si tratta di un’affermazione piuttosto forte e certamente esagerata, ma in tutto ciò c’è del vero.
E’ indubbio come l’irsuto selvatico sia ormai diventato una delle prede più ambite dai cacciatori italiani, e questo per la sua prolificità e l’adattamento ad ogni ambiente, offrendo occasioni d’incontro praticamente in ogni regione.
Il cinghiale sparì da molte zone della nostra penisola nel secolo passato, cacciato un po’ ovunque per la prelibatezza delle sue carni ed osteggiato per la sua dannosità da coloro che traevano sostentamento da campi e coltivi, in un’epoca nella quale il settore agricolo (non a caso gli economisti lo definiscono “primario”) contribuiva in maniera determinante al PIL nazionale.
A metà del secolo scporso lo si cacciava ancora nelle maremme laziale e toscana e sull’appennino liguro-piemontese o sulle Alpi Marittime, dove alcuni soggetti sconfinavano dalla vicina Francia; inoltre in Sardegna, isola con una fauna autoctona molto particolare, era presente con una sottospecie, piùpiccolo di quello presente nel continente europeo .
Fu però negli anni sessanta che si pensò di reintrodurlo a fini venatori, così come fu fatto per altre specie selvatiche, ed il cinghiale trovò condizioni favorevoli al suo sviluppo, diffondendosi rapidamente.
In quel periodo la gente mosse verso le città, attratta da nuove prospettive di benessere e lavoro, abbandonando campagne, colline e anche le montagne dove la vita era stata sempre più dura che altrove; l’Italia in un decennio o poco più divenne una potenza industriale, il cementò colò ovunque e nuove strade e moderne autostrade tagliarono il Paese in lungo e largo, mutando aspetto e incidendo sull’ambiente.
Una delle conseguenze più immediate fu lo sviluppo di nuovi boschi e di incolti, là dove il lavoro di generazioni d’uomini e donne aveva dissodato, lavorato e coltivato per secoli.
I cacciatori italiani, abituati a inseguire lepri con i loro segugi, o cercare starne, pernici rosse, fagiani e quaglie con i loro cani da ferma, fecero conoscenza con un genere di selvatico in quegli anni ancora semisconosciuto: l’ungulato.
Caprioli, cervi, camosci, mufloni e daini cominciarono ad essere cacciati da nord a sud, da est a ovest, prima in riserve private ma poi anche in territorio libero, dalle Alpi all’Appennino; ma fu il cinghiale quello che “esplose” letteralmente dal punto di vista numerico, andando ad occupare zone da cui era sparito ormai da secoli, e dove nemmeno esisteva una tradizione venatoria a lui riservata. 
La specie maggiormente presente in Italia, quella maremmana, con soggetti di taglia media, compatti e talvolta con mantello brinato, si trovò ad essere in competizione con soggetti imponenti, giunti principalmente dall’Est Europa dove il cinghiale arriva agevolmente a superare il quintale, con alcuni elementi che possono anche raddoppiare quel peso.
Questo “inquinamento genetico” contribuì di certo a rafforzarne la specie, ma aumentò anche le difficoltà perché lo sviluppo demografico sfuggì al controllo, divenendo un problema per gli ingentissimi danni che questi suidi selvatici sono in grado di arrecare alle coltivazioni.
Si dice ve ne siano oltre un milione di esemplari ed il cinghiale ora lo si caccia in tutta Italia, isole comprese (recentemente anche in Sicilia, perché in Sardegna, pur aumentata di numero, la specie è sempre stata endemica), e praticamente in ogni ambiente; noi vogliamo raccontarvi qualcosa della sua caccia in montagna, e nello specifico sulle Alpi.
Il cinghiale in montagna è sempre stato presente, così come lo si trovava nelle immense foreste planiziali che ricoprivano la Pianura Padana, e il Piemonte certo non faceva eccezione; resta il fatto che nel corso del Novecento lo si poteva dire praticamente estinto dalla catena alpina, se non per sue sporadiche apparizioni con soggetti che “svalicavano” dalla confinante Francia. Le cronache raccontano di qualche soggetto abbattuto nel Pinerolese, ma si trattava di eventi così rari da essere riportati anche sui giornali locali.
In quegli anni i fianchi delle montagne era coltivati sino a notevoli altitudini, tanto che dove ora vi sono piste da sci e impianti di risalita in quei tempi si raccoglievano patate o si mietevano orzo, grano e segale.
Verso gli anni settanta qualcosa cominciò a mutare, e di lì a poco più di un decennio la presenza del “setolone” si fece via, via più consistente, tanto che i cacciatori piemontesi poco adusi a quella specializzazione venatoria inizialmente lo insidiarono con le stesse mute di segugi con cui braccavano sempre meno frequenti lepri.
Sta di fatto che da allora ormai sono passati una trentina d’anni, e la caccia al cinghiale si è sviluppata moltissimo, ed in tutte le forme con le quali si esercita quel prelievo: la braccata, la girata ed infine selezione.
In Piemonte al momento, e con la possibilità la Regione ne possa modificare dimensioni o suddivisione con il disegno di legge sulla caccia appena presentato, attualmente esistono 21 ATC (Ambito Territoriale di Caccia) e ben 17 CA (Comprensori Alpini), distribuiti quest’ultimi lungo la catena montuosa che, partendo da sud e proseguendo ad ovest e nord, lo cinge quasi interamente, separandolo da Liguria, Francia, Valle d’Aosta e Svizzera.
Limitando la nostra attenzione alla montagna, quella che la stessa legge nazionale 157/92 definisce “zona faunistica delle Alpi”, riscontriamo come in tutti questi la caccia al cinghiale coinvolga sempre più appassionati, attratti certo dalla di un carniere importante, il famoso…sacchetto di carne, ma anche dalle emozioni che essa sa regalare a chi la pratica.
Scrivevamo poco sopra che si esercita in tre differenti forme, e dunque ora concentriamoci su questo aspetto, analizzandole brevemente, una ad una, partendo da quella maggiormente praticata: la braccata.
Si tratta certo della forma caccia al cinghiale più tradizionale tra tutte, quella che generazioni di…seguaci di Nembrotte, hanno praticato altrove, od altri hanno potuto conoscere leggendone nei racconti di grandi scrittori venatori toscani dell’Ottocento come Ugolini o Niccolini, e di novellieri come Fucini e Paolieri; oppure, restando ai giorni nostri nel bel romanzo “Re di Macchia” dell’inossidabile Bruno Modugno e in “Viva Maria” di Franco Nobile.
La braccata è l’azione venatica collettiva per definizione, esercitata sempre in squadra e con numerosi cacciatori, suddivisi in battitori e postaioli, distribuiti sul territorio.
Le squadre si ritrovano fuori dai paesi che è ancor buio, in modo da offrire a coloro che occuperanno le “poste” di raggiungerle per tempo e prima dell’inizio delle battute; ma poiché l’orografia del territorio non è certo facile o pianeggiante, e nemmeno sono disposte altane ai margini di boschi o tagliate, talvolta ci vanno delle ore, superando dislivelli importanti e spesso camminando alla luce della torcia nella neve.
Quando a fondovalle i battitori rilasciano i cani, in genere mute di segugi particolarmente abili in quei difficili territori; da noi sono molti usati i cani francesi, come i robusti griffoni vandeani o i più eleganti ariegois, ma anche i…nostrani segugio maremmano o l’Italiano a pelo forte.
Quando cominciano i latrati bisogna che i cacciatori siano tutti al loro posto, coprendo tutte le linee di fuga dei cinghiali mossi dai cani. Può essere s’inizi la battuta con temperature miti e terreno sgombro da neve, a quote di sette/ottocento metri e si finisca la battuta a duemila e oltre, al gelo e magari pure nella neve che t’arriva sino al ginocchio.
Quando poi la fucilata spegne la fuga d’un grosso verro passato indenne alle poste basse, e magari la stava facendo franca superando la cresta e scendendo sull’altro versante, allora si deve organizzare il recupero della sua carcassa, in zone difficili e non servite da strade o sentieri. 
Il cinghiale occupa regolarmente i terreni montagnosi, raggiungendo quote talvolta ragguardevoli, tanto che sono molti i casi d’animali avvistati o abbattuti là dove sarebbe più normale cacciare un camoscio.
Verso la fine della stagione, novembre e dicembre, quando in genere la neve è orma caduta copiosa in quota, gli animali s’abbassano e allora i boschi risuonano delle braccate e s’odono le secche fucilate dei calibri 12 o delle carabine (per questa forma di caccia in Piemonte si possono usare entrambi).
Un paio d'anni fa mentre ero in zona forcelli e coturnici, ne ho fatto incontro ravvicinato, ad oltre 2.300 metri d’altezza; il cinghiale, un grosso maschio, disturbato da altri cacciatori di piuma più in basso di dov’ero io, risaliva un ripido canalone, e si è trovato a tu per tu con la mia setter, stupita quanto lui di quell’inatteso rendez vous. Entrambi hanno preferito evitare il contatto, con sollievo dello scrivente conscio che uno sciame di pallini del “6” difficilmente avrebbero dissuaso l’irsuto bestione da una carica a me o alla mia amica pelofrangiata.
Il cinghiale viene anche cacciato da squadre meno numerose, e con l’ausilio di un solo cane o al massimo due o tre (in genere slovensky kopov, jagd terrier, bassotto tedesco o dachsbracke): è la così detta “girata”, praticata anche nella zona faunistica delle Alpi.
 
Come funziona questa forma di prelievo, sempre più diffusa ed incentivata specialmente in zone dove l’uso di grosse mute di cani potrebbero arrecare disturbo all’altra fauna ungulata (e non solo).
Per praticarla non serve essere in molti, ma bisogna disporre di cani corretti e…piuttosto corti, e cioè poco propensi ad allontanarsi troppo dal conduttore; spesso questi vengono condotti al guinzaglio ed una volta rintracciate le piste degli animali che si sono mossi per la notte, vengono rilasciati.
Quando l’abbaio a fermo segnala ai cacciatori che l’ausiliare ha individuato i selvatici allora ci si apposta, per concludere l’azione di caccia.
Se i cinghiali sono rintanati in qualche folto i cani cercano di farli uscire, coadiuvati dai cacciatori che però debbono prestare massima attenzione a che i selvatici non attacchino i loro ausiliari. Anche in montagna sono molti i cacciatori che debbono interrompere la giornata di caccia per correre dal veterinario a far…ricucire i loro segugi; in alcune situazioni purtroppo li debbono invece seppellire, a testimonianza di come quello del cane da cinghiale sia sempre mestiere difficile. La girata “impatta” molto poco sul territorio, aspetto che diventa essenziale in montagna, dove l’ambiente va tutelato con particolare attenzione, e così capita d’essere a caccia di beccacce ed incontrare i “cinghialai”, senza mai disturbarsi l’un altro, semmai scambiandosi informazioni su avvistamenti di selvatici.   
L’ultima forma di caccia al cinghiale, questa praticabile in montagna anche al di fuori della normale stagione venatoria (in Piemonte da fine settembre a fine dicembre), è la selezione.
Qui il cacciatore può usare esclusivamente la carabina, prelevando solo gli animali indicati nel piano di abbattimento richiesto dal CA ed autorizzato dalla Regione.
Quest’anno era possibile sparare ai cinghiali già da metà aprile, ma sono stati pochi i CA a richiedere tale forma di prelievo. Le ragioni sono più di ordine pratico che altro, ma resta il fatto che la selezione incide molto poco sul totale degli abbattimenti e, sebbene la Regione abbia pressato i Comprensori al fine di contenere i danni agricoli, la risposta del mondo venatorio è sempre stata piuttosto tiepida. In effetti cacciare il cinghiale di selezione è poco proficuo, ostacolati spesso da divieti che impediscono ai cacciatori l’utilizzo di piste forestali ed altre strade necessarie a raggiungere le zone in cui vivono i branchi, oltre al fatto che spesso sul terreno è ancora presente in notevole quantità la neve.  E’ auspicabile che anche la politica sappia correggere la rotta, perché la selezione delle tre è certamente la forma di caccia più indicata in una logica di gestione del territorio.
Chiudo con un’altra forma di caccia, non consueta ma al contrario occasionale: quella vagante, talvolta praticata dal singolo.
E’ consentito al cacciatore munito di autorizzazione di abbattere il cinghiale, pur se lui fosse appostato per sparare a tordi o cesene o in giro per montagne e boschi alla ricerca di forcelli o beccacce con il suo cane da ferma.
A me è successo diverse volte, non ultima la passata stagione, in compagnia di un amico che d’abitudine lo caccia al singolo, e senza il cane.
Lemon, il mio setter inglese abilissimo su tipica e regine, ci fece palpitare schiacciandosi a terra tra felci e castagni. Pensammo subito alla beccaccia e andammo a servirlo con gli schioppi caricati con dispersanti e piombo 8 e 9. Ma lui non aveva avventato la maliarda arciera, bensì una giovane scrofa che non ci pensò due volte a caricarlo; ci fu il tempo per un rapido cambio di munizione, ed una palla asciutta spense subito il suo ardore.
L’animale era ferito ad una zampa anteriore, forse spezzata da una recente fucilata, e dunque aveva preferito l’attacco alla fuga.
Quello era il quarto cinghiale che Lemon mi inchiodava in due uscite, a testimonianza di come anche il cane da ferma possa essere efficace per quel tipo di caccia; nelle altre occasioni ero riuscito a portarlo via, impedendogli di risolvere l’azione, ma quella volta la fortunata presenza del compagno di caccia, e l’atteggiamento aggressivo del selvatico, avevano comportato una differente soluzione finale.
So di cacciatori, anche in altre zone d’Italia, cacciano d’abitudine i cinghiali con setter, bracchi o breton, ma francamente non mi sento di consigliare tale specializzazione a nessun collega, anche perché se il cane da ferma se ne appassiona poi lo cerca, trascurando il resto: a ciascuno la sua forma di caccia.
 
Le foto dei cinghiali sono di Batti GAI

LUPO: ACCORDO TRA REGIONE EMILIA ROMAGNA E PARCO

Sassalbo, 29 Set 16
 
La Regione Emilia-Romagna e il Parco Nazionale dell'Appennino Tosco Emiliano hanno siglato un accordo  che prevede una stretta collaborazione tra l'assessorato all'Agricoltura della Regione e il  Wolf Apennine Center, la struttura specializzata del Servizio Conservazione della Natura e delle Risorse agro-zootecniche del Parco Nazionale. Convivere con il lupo è possibile, ma per farlo occorre promuovere buone pratiche, sgomberare il campo da pregiudizi, informare la popolazione, coinvolgendo mondo ambientalista, associazioni agricole e venatorie. Da qui l'accordo sottoscritto. Tra gli obiettivi:  la mitigazione dei conflitti uomo-lupo e in generale con i diversi portatori di interesse; la soluzione delle problematiche di tipo sanitario; il monitoraggio della popolazione anche  attraverso un sistema di  rilevazione satellitare; le campagne di informazione e sensibilizzazione che verranno svolta in tutto l'ambito regionale. Su quest'ultimo aspetto, in particolare, sarà realizzato in collaborazione con il territorio, un calendario di appuntamenti da svolgersi nel PalaLupo, struttura attrezzata, gonfiabile e itinerante, che ospiterà incontri con gli allevatori, le scuole, la cittadinanza.
Con questi obiettivi  nasce la collaborazione tra la Regione Emilia-Romagna e il  Wolf Apennine Center, la struttura specializzata del Parco nazionale dell'Appennino tosco-emiliano.
"La Regione - afferma l'assessore all'Agricoltura, Simona Caselli -  vuole impegnarsi in due progetti  pilota per promuovere una migliore convivenza uomo-lupo e per contenere i danni prodotti all'agricoltura dal cinghiale, una delle specie più impattanti e in espansione. In questi progetti abbiamo voluto coinvolgere, rispettivamente, il Parco Nazionale e il Parco regionale dei Gessi Bolognesi. Siamo di fronte a progetti che, pure nella loro diversità, rappresentano una buona pratica  che vogliamo sostenere e proporre come modello sul territorio. Contrastare e contenere i danni che la fauna selvatica provoca innanzi tutto al mondo agricolo è possibile, ma per farlo occorre da un lato lavorare sulla prevenzione e l'informazione, dall'altro rafforzare l'azione coordinata sul territorio.  Nel caso del lupo, che è una specie protetta, la prevenzione è fondamentale. Lo dimostrano gli interventi che abbiamo già finanziato con soddisfazione degli allevatori, anche se in un quadro di miglioramento persistono zone di forte sofferenza".
"Il ritorno del lupo su tutto l'Appennino -   sottolinea il presidente del parco Fausto Giovanelli -   rappresenta sicuramente una ricchezza è un valore anche emblematico, per l'ambiente e la biodiversità. Trattandosi ormai di ritorno e reinsediamento diffuso dal crinale alla prima collina, rappresenta anche un problema con aspetti nuovi per la convivenza con gli insediamenti umani oltre che con alcune attività economiche, con le quali vanno gestiti con impegno i conflitti attuali e potenziali, con misure di prevenzione efficaci e con reale e rapida azione di indennizzo, quale quella che il Parco Nazionale può garantire all'interno del proprio perimetro. Il Parco Nazionale dell'Appennino Tosco Emiliano è lieto di poter mettere a disposizione le conoscenze, l'esperienza e le validissime competenze maturate negli anni e più recentemente, dal 2012, sviluppate e aggiornate col Wolf Apennine Center (W.A.C.) quale centro permanente di riferimento istituzionale per la gestione del Lupo e dei conflitti che esse può provocare, su area vasta e non solo nel Parco. Siamo orgogliosi di poter mettere questo patrimonio di impegno e risorse umane a disposizione della intera Regione Emilia Romagna nel realizzare sempre più rigorose ed efficaci politiche di gestione della fauna selvatica e supportare le nuove crescenti problematiche".
La sigla dell'accordo avvenuta a Bologna è stata anche l'occasione per presentare il progetto Life MIRCO-Lupo che ha visto gli interventi di Willy Reggioni responsabile WAC – Progetto Mirco-Lupo,  Federico Striglioni responsabile progetto Mirco-Lupo per il Parco Nazionale Gran Sasso Monti della Laga, Simone D'Alessandro di CARSA e Giuseppe Piacentini Comandante CTA – Corpo Forestale dello Stato. A centro dell'attenzione l'app "Mappa il randagio", scaricabile dal sito www.lifemircolupo.it per segnalare  l'avvistamento di cani randagi e i Nuclei cinofili Anti-veleno che dal mese di ottobre opereranno nel territorio della Regione Emilia Romagna.
 
Tratto da www.parks.it  "News e comunicati dai Parchi"
 

AL LUPO, AL LUPO...

Articolo pubblicato su DIANA n.05/16
Testo Alessandro Bassignana e foto di Batti Gai
 
 
Esopo, favoliere greco saggio quanto antico, era solito scrivere le sue brevi composizioni per trarne sempre una morale finale, dispensare consigli o impartire lezioni. 
Scrisse molte fiabe, e una di queste titolava “Lo scherzo del pastore”, la storia d’un pastorello che, annoiato com’era quando le sue pecore pascolavano, aveva preso l’abitudine di urlare: “al lupo, al lupo” allarmando tutte le persone del villaggio. Queste accorrevano sempre, ma il lupo non c’era mai, e così la volta che davvero arrivò nessuno si curò di lui che gridava, non credendogli più, e questo si pappò l’intero gregge! 
Il lupo già allora era visto come un acerrimo nemico dell’uomo, nemico cui difendersi.
 
 
La storia del rapporto uomo-lupo però è ben più vecchia di questa pur antichissima fiaba, a testimonianza di come il…bipede intelligente ed uno dei quattro zampe più scaltri ed astuti siano da sempre in competizione l’un l’altro. I due si sono sempre fronteggiati, in un conflitto che spesso è sfociato nel sangue, con il lupo, predatore…alfa, o superpredatore, costretto ad arrendersi di fronte a quello che in zoologia viene definito il “super predatore ultimo”: l’uomo!
Essere un predatore alfa significa essere in cima alla catena alimentare nel proprio ambiente, ovviamente carnivori e non temendo altri che un esemplare della propria specie, più forte o più grande. E tutto ciò avviene per il lupo, che si trova a temere solo l’uomo, capace di cacciarlo ed ucciderlo, oppure la tigre, laddove le due specie convivono, come nella regione dell’Amur tra Siberia e Manciuria e che i lupi li fa fuori, vuoi per cibarsene ma anche per eliminare un pericoloso concorrente per cervi o cinghiali.
Torniamo in casa nostra, e ripartiamo da Esopo e la sua favola.
 
Il lupo è stato sempre presente nella nostra storia, temuto e cacciato in tutta Europa perché poteva rappresentare un pericolo per gente che viveva di pastorizia, ma anche per l’incolumità di fanciulli, donne e anziani, insomma dei soggetti più deboli. Vi sono storie, leggende, oltre che fiabe, che ne raccontano a profusione, a testimonianza di come questo formidabile predatore turbasse i sonni di quelle antiche popolazioni.
Ma l’uomo, l’abbiamo scritto, è un predatore ancor più efficace ed efficiente del lupo, e così la battaglia la vinse lui, costringendo il formidabile animale a recedere, rifugiandosi in luoghi inaccessibili o addirittura estinguendosi in molte zone, come le isole britanniche da cui scomparve, cacciato per legge, tra il XV e il XVII secolo.
Anche in Italia subì un drastico ridimensionamento nel corso del XVIII e XIX secolo, scomparendo del tutto dalle Alpi (l’ultimo lupo pare fu ucciso nel 1921 nelle Alpi Marittime) e restando confinato nel solo Appennino, in Abruzzo e con qualche nucleo isolato sui monti della Calabria; in Europa sue popolazioni resistevano in Spagna, nei Balcani e nei paesi nordici, oltre che in Russia e qualche paese dell’ex-blocco sovietico. 
 
 
 
Il lupo in Italia continuò ad essere cacciato sino agli anni cinquanta quando esistevano ancora i “lupari”, cacciatori di lupi, che vivevano dei premi incassati e anche delle regalie delle popolazioni loro grate per averle liberate da quello che, in comunità povere come quelle, era considerato un flagello.
Qualcosa cambiò negli anni settanta del secolo passato, quando di lupo ormi esistevano poche decine d’esemplari, si dice un centinaio in tutt’Italia sebbene qualcuno ancor oggi dubiti sulla giustezza di quei numeri. Sotto la spinta della potente organizzazione WWF (World Wife Fund For Nature), e la collaborazione del Parco Nazionale d’Abruzzo, venne lanciata la famosa “Operazione San Francesco” per la conservazione del lupo. Fatto sta che il lupo cominciò ad essere tutelato: fu prima con la legge sulla caccia n. 968 e successivamente nella l.157/92, che l’inserì tra le specie “particolarmente protette”, ma la stessa Convenzione di Berna, elaborata nel 1979 e resa esecutiva in Italia dalla l. 503 del 05/0/81, l’incluse nell’Allegato II come specie faunistica “assolutamente protetta”. Infine, dal 1997, il lupo è nell’allegato D del CITES, come specie di interesse comunitario.
In pochi anni, grazie alla protezione totale, all’abbondanza di prede, e molti dicono anche l’aiuto dell’uomo, i lupi si diffusero e sono tornati a ripopolare vaste aree del nostro Paese, risalendo dall’Appenino.
Ezechiele ormai ha raggiunto anche le Alpi, superandole secondo i francesi che sostengono l’italianità delle loro popolazioni (a proposito, lì li cacciano, ma ne parleremo dopo), immesso dai cugini transalpini secondo voci o leggende locali, ovviamente mai confermate da Parigi e tanto meno dall’esame del DNA di soggetti recuperati. Ad ogni buon conto partendo da lì i lupi hanno completato o quasi l’intero arco alpino, visto che recenti avvistamenti raccontano di una vera e propria saldatura” tra i popolamenti appenninici e quelli dinarici come nel caso della Lessinia, nel veronese.
Com’è o come non è, sta di fatto che il lupo è tornato ad ululare prepotente sui contrafforti montagnosi di Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia e Triveneto; e allora parliamo un po’ di questo famoso…lupo alpino, o presunto tale.
 
I primi avvistamenti furono inizio anni novanta, in Francia, nel Parco del Mercantour al confine con il nostro Parco Alpi Marittime; lì c’era una robusta popolazione di mufloni che attendeva d’essere sfoltita e… così fu!
Un paio d’anni ed il lupo saltò fuori anche in provincia di Torino, in un paio di scatti fotografici e filmati realizzati nel Parco Naturale della Val Troncea e in quello del Gran Bosco, proprio dove trent’anni prima erano stati introdotti quei caprioli e cervi da cui s’era generato il primo nucleo stabile di ungulati delle Alpi Occidentali, e che aveva favorito lo straordinario ripopolamento di tutta la regione.
La cosa curiosa è come tutti questi primi avvistamenti siano sempre avvenuti all’interno di aree protette, piuttosto lontane dall’Abruzzo da cui sarebbe dovuta iniziare questa biblica migrazione di simpatici lupacchiotti capaci di raggiungere le Alpi saltando a piè pari un bel pezzo d’Italia, come la Liguria, dove avvistamenti e presenza stabile sono di molti anni dopo quelli franco-torinesi. Questo è un bel mistero, crediamo destinato a restare irrisolto anche se bisogna riconoscere come la scienza ci dimostri come soggetti in dispersione possono compiere tragitti di centinaia di chilometri per formare nuovi branchi.
Non era finito il millennio che del lupo…appenninico-alpino cominciarono a parlare in molti: erano in gran parte cacciatori che li vedevano fugaci palesarsi su creste o al margine dei boschi, malgari e pastori che l’incontravano in ben più spiacevoli occasioni, magari mentre pasteggiavano con qualche loro pecora o capra, escursionisti o cercatori di funghi.
Che Ezechiele non sia “vegano” non è novità, ma quanto mangi è cosa che sfugge ai più.
Si dice che un lupo abbisogni di un paio di chili di carne al giorno, forse anche più, e dunque risulta abbastanza facile da capire come ad un soggetto adulto necessiti quantomeno un piccolo ungulato a settimana e ad un branco, e questi solitamente sono composti da tre sino a cinque/sette soggetti, un animale predato di quelle dimensioni possa bastare al massimo per un paio di giorni. Fate dunque i conti voi del…consumo annuo!
 
 
I lupi poi regolano le loro fasi fertili o estrali a seconda del cibo disponibile, e comunque le femmine (solo la coppia dominante si riproduce) vanno in calore una sola volta l’anno, generalmente tra fine gennaio e marzo in modo da far nascere le cucciolate in primavera, quando l’abbondanza di prede consente ai genitori di disporre delle proteine sufficienti per cacciare e far crescere robusta la bella famigliola.
Il lupo affascina, questo è certo, ma ciò che colpisce di più è come esso negli ultimi anni abbia potuto far nascere sentimenti così fortemente contrapposti: da una parte fanatici che, ignorandone biologia e necessità, lo vorrebbero nel giardino di casa quasi fosse un tenero cucciolotto, e questi sono gli stessi ambientalisti...un po’ salottieri che da uffici cittadini, o confortevoli abitazioni, plaudono al suo ritorno e sognano di vederlo, sentirne l’ululato. Dall’altra ci sono quelli che del lupo temono le straordinarie doti predatorie, con lui ci hanno già fatto i conti e cui s’accappona la pelle solo a sentirne pronunciare il nome, figurarsi quando lo vedono, ne rinvengono tracce del passaggio. Queste sono le popolazioni rurali ed alpine, ritenute sempre più marginali in una società come quella italiana, capace di svendersi tali valori di fronte all’Europa in cambio di qualche concessione o deroga in qualche altro settore dell’economia.
Parlar di lupo qui da noi è diventato un vero e proprio tabù, con la politica che chiude a riccio non sapendo più quali pesci pigliare, pressata da un lato dalla lobby animal-ambientalista e dall’altro dalle esigenze di associazioni agricole, allevatori, pastori e, ultimo ma certo non meno importante, dei cacciatori che vedono svanire e disperdere un immenso patrimonio faunistico costruito in decenni di sana gestione.
 
Facciamo il caso del Piemonte, la regione dove…l’italico lupo alpino risulta avere la maggior presenza. Un dato per tutti: nel solo torinese il Servizio Tutela Flora e Fauna della Città Metropolitana (ex-provincia) ne ha recuperati morti una sessantina (investimenti, avvelenamenti e pure…piombo) solo negli ultimi quindici anni.
 
 
Confinante con la Francia, il Piemonte ha visto il numero dei predatori aumentare a dismisura, nonostante ciò le cifre fornite recentemente dagli studiosi del progetto Life WolfAlps cozzano con la percezione di chi sul territorio ci sta davvero, e con i continui avvistamenti di lupi laddove…loro…t’avevano detto non esserci alcuno. Life WolfAlps è cofinanziato dalla UE e lì sopra ci sono finiti sopra oltre sei milioni d’euro, una parte dei quali a carico dei contribuenti subalpini, che dovrebbero essere spesi per studi, interventi sul territorio, ma anche azioni di prevenzione danni come la fornitura di recinti elettrificati o cani da guardiania ai pastori; al progetto hanno partecipato studiosi di fama mondiale come il prof. Luigi Boitani, dell’università La Sapienza di Roma, e altri ancora.
Da anni esperti della materia raccolgono informazioni e notizie sui lupi, redigendo rapporti e relazioni che raccontano di una loro espansione costante, inesorabile: nel 2005 in Piemonte si registrava la presenza di 7 branchi stabili, 4 in provincia di Cuneo e 3 in quella di Torino, saliti a 14 nel 2010 e infine a 21 (14 Cuneo, 7 Torino) nel 2015, ad indicare come il numero dei lupi sia quantomeno triplicato in soli 10 anni!
Ma è proprio su questi numeri che s’appuntano le maggiori critiche e nascono polemiche, perché le associazioni agricole e quelle venatorie li contestano, segnalando come la presenza del predatore sia molto più diffusa, e non solo sulle Alpi, ma persino in pianura, a ridosso di paesi e città. È di nemmeno un anno fa la notizia di un lupo immortalato da una foto trappola notturna sulla collina torinese, in mezzo alle belle ville della borghesia piemontese; così come altri animali sono stati vittime di automobili in zone industriali della cintura cittadina, tra capannoni ed aziende.
E mentre aumenta il numero di lupi, CA ed ATC piemontesi segnalano una costante diminuzione dei popolamenti di ungulati quali capriolo e muflone, ma anche cinghiali, cervi e camosci. Basti pensare che laddove erano presenti centinaia di mufloni, come nell’Azienda Faunistica Albergian di Fenestrelle(TO), questi siano spariti del tutto o ridotti ai minimi termini, penalizzati certo dalla scarsa conoscenza che questi animali provenienti da Sardegna e Corsica hanno dell’atavico predatore, ma pure da lui mangiati.
Anche il capriolo ha subito la fortissima pressione del lupo, tanto da essere notevolmente ridotto in zone dove la sua presenza era davvero massiccia, come l’Alta Val Susa o la Val Chisone; un dato per tutti: Pragelato (TO), Alta Val Chisone, dove il piccolo cervide è passato dai 386 capi censiti nel 2002 ai poco più di 40 dell’ultima stagione, con l’inevitabile chiusura della caccia di selezione a quella specie.
I cacciatori poi segnalano mutamenti nel comportamento di selvatici che risentono della sua presenza, con caprioli ovunque sfuggenti e, scomparsi ormai all’alta montagna, sono concentrati intorno a case o strade; cinghiali, molto aggressivi con i cani, con femmine e piccoli che paiono fantasmi e i grossi verri barricati in folti impenetrabili dove possono vendere carissima la pelle. In quest’ultima stagione venatoria molte squadre hanno abbattuto poche femmine e giovani, ma quasi solo maschi, spesso superiori al quintale!
 
È comunque di questi giorni la presentazione di un importante e ambizioso progetto, inserito in un vasto piano di tutela dei grandi carnivori presenti in Europa, e più precisamente cinque specie: Orso bruno (Ursus arctos), Lince eurasiatica (Lynx lynx), Ghiottone (Gulo gulo), Lince pardina (Lynx pardinus) e Lupo (Canis lupus); il lavoro, intitolato “Piano di conservazione e gestione del lupo in Italia”, redatto dall’Unione Zoologica Italiana, offre uno spaccato sulla situazione italiana, arricchito di informazioni sulla biologia della specie lupo, abitudini, distribuzione, tendenza demografiche, interazione con le attività umane, ibridazione, predazioni e così via.
Si legge di come l’Italia ospiterebbe, anche se qui il condizionale è d’obbligo e vedremo dopo il perché, un ragguardevole “patrimonio” di lupi, corrispondente al 9% d’Europa, Russia esclusa, e addirittura il 17-18% a livello UE; i lupi disporrebbero di un’areale di Km² 11.900 per le popolazioni alpine e km² 80.796,62 (min-max: 69.553,43- 89.690,81) per quelle appenniniche, divise idealmente dal Colle di Cadibona, in provincia di Savona e confine tra Appennino ed Alpi.
Ezechiele e famiglia trovano nel “Bel Paese” un vero e proprio…” Paese di Bengodi”, potendo disporre di cibo a volontà rappresentato da milioni di ovi-caprini e bovini e un patrimonio di ungulati selvatici stimato da ISPRA nel 2010 ad un 1,9 milioni di capi totali, tra cui almeno 1 milione di cinghiali e 456.000 caprioli: 20.000 tonnellate di biomassa utile per le zanne del formidabile predatore.
La grande disponibilità di cibo avrebbe dunque consentito al lupo la formidabile espansione degli ultimi anni, tanto da arrivare ormai a metterne in discussione lo stesso “status giuridico” di protezione assoluta prevista da leggi e accordi internazionali; questo in Italia lo chiedono a gran voce le associazioni di tutela del mondo agricolo, o quelle che s’occupano di montagna, ruralità; naturalmente anche il mondo venatorio solleva la questione, preoccupato com’è dalla crescita esponenziale del lupo, con il conseguente depauperamento di quello che sembrava essere uno dei più ricchi patrimoni di fauna europea. 
 
 
Da tempo si discute di prelievi, abbattimenti, caccia al lupo, scatenando polemiche a volontà nel mondo ambientalista, certo sempre pronto a sventolare bandiere ideologiche meno a trovare soluzioni idonee alla risoluzione dei problemi di chi davvero vive il territorio. Guardiamo all’estero, partendo dai numeri.
Detto dei 21 branchi piemontesi, che diventano 23 con quelli di Val d’Aosta e Lessinia più i soggetti in dispersione in Lombardia, Veneto e Friuli, in totale le Alpi ospiterebbero 150 lupi, con stima inferiore cautelativa di 100 capi; per l’Appennino il rapporto ci dice che i lupi…potrebbero essere, ed è allucinante questa forchetta, 1580 animali con i valori compresi tra 1.070 e 2.472! Cosa aggiungere a questi numeri, se non restare sbalorditi da stime così pressapochiste, specialmente se confrontate con quelle d’altre nazioni.
In Francia, popolazione contigua alla nostra alpina, li contano con precisione, tanto da sapere che il numero è sceso da quando li cacciano dai 301 capi censiti nel 2014 ai 282 del 2015 (fonte Office national de la chasse et de la faune sauvage); i transalpini hanno previsto un abbattimento di circa il 12% della popolazione lupina, 36 animali di cui 34 ad oggi sono stati abbattuti.
Gli svizzeri ne avrebbero, e pensate con quale grado di precisione ce lo dicono, 18 capi tra quelli di Canton Ticino, Grigioni e San Gallo, e hanno deciso di abbatterne almeno due. Ha aperto la caccia anche la Finlandia, a 46 soggetti sui 250 di cui si è accertata la presenza; provvedimenti analoghi per la Norvegia con 12 lupi da cacciare sui 25 presenti e la Svezia, dove la Corte Svedese ha dato il via libera all’abbattimento di 36 lupi grigi, circa il 10% del totale. Chiude questa panoramica la Spagna dove il lupo registra da sempre una notevole presenza, certamente comparabile a quella italiana, con oltre 2.000 lupi stimati e 200 cacciabili nella regione delle Asturie.
In Italia, lontani dal voler affrontare seriamente questo problema, siamo ancora nella favola esopiana ed urliamo: “al lupo, al lupo”, solo che a differenza di quanto successe al pastorello i lupi ci sono, numerosi, prolifici, affamati. Lo si capirà solo al primo serio incidente, nella speranza che questo non accada mai.
 

PER I CACCIATORI PIEMONTESI UN'APERTURA ATTESA 20 ANNI

Da domenica 2 ottobre 9 specie saranno nuovamente cacciabili per i cacciatori piemontesi.
 
Domenica 2 ottobre in Regione Piemonte sarà consentito cacciare uccelli migratori e tra questi gli acquatici. Dopo decenni di immotivato divieto e conseguente penalizzazione dei cacciatori piemontesi tornano a essere prelevabili 9 specie di avifauna migratoria (fischione, canapiglia, mestolone, codone, marzaiola, folaga, porciglione, frullino, pavoncella). Questo risultato è stato ottenuto grazie all’intervento delle Associazioni Venatorie Federcaccia, Enalcaccia, AnuuMigratoristi, EPS e Libera Caccia e grazie alle motivazioni fornite dall’Ufficio Avifauna Migratoria Fidc che hanno dimostrato l’illegittimità del calendario venatorio piemontese che ne aveva stabilito il divieto.
Sappiamo che la Regione Piemonte vorrebbe proseguire con una proposta di legge per stabilirne il divieto, anche in questo caso Federcaccia e l’Ufficio Avifauna stanno combattendo per evitare questa scelta sconsiderata, che manifesta profili di incostituzionalità in quanto le variazioni di legge sulle specie cacciabili spettano allo Stato e non alle Regioni.
Pur con queste nubi all’orizzonte si tratta di una storica apertura che dimostra a tutti i cacciatori italiani la possibilità di cambiare in meglio le situazioni penalizzanti, anche cristallizzate negli anni e che l’utilizzo di dati scientifici e l’impegno legale e politico da parte di Federcaccia sono le chiavi per ottenere successo.
 
Ufficio Avifauna Migratoria FIdC
Federcaccia Piemonte 

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