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Arci Caccia Umbria: ancora niente selezione. In attesa del Tar, cerchiamo soluzioni

A fine agosto, l’Assessorato alla caccia della Regione Umbria ha reso noto che, a seguito dell’ordinanza del Tribunale Amministrativo dell’Umbria sul ricorso presentato dal Wwf riguardo al calendario venatorio per la stagione 2018/2019 e il successivo decreto del Consiglio di Stato del 6 Settembre scorso, “la caccia di selezione alle specie Capriolo e Daino è da ritenersi sospesa a partire dalla data del 12 agosto e fino a nuova disposizione”. Ad oggi, siamo ancora in attesa di conoscere la sentenza definitiva su questa surreale vicenda e il timore dell’Associazione è che una sospensione prolungata della caccia di selezione alle specie Capriolo e Daino in Umbria, oltre a poter creare danni all’agricoltura finirà per mortificare la figura del cacciatore di selezione, in cui riponiamo grandi speranze per poter rilanciare una immagine corretta, reale e non manipolata dell’attività venatoria, sostenuta dalla consapevolezza che i cacciatori sono una parte della società utile alla campagna e ai suo abitanti, all’ambiente, al territorio e alla fauna. Infatti, dopo anni di sviluppo piuttosto disordinato della caccia, con la caccia di selezione, che parte dai censimenti per poi passare alle formulazioni dei piani di prelievo, si sono individuati alcuni obiettivi prioritari a carattere generale, come ad esempio lo stretto controllo del cinghiale, la stabilizzazione del capriolo nei territori vocati e il contenimento del daino, con una attenta programmazione delle densità. Nel nostro paese, nell’ultimo decennio, l’espansione del popolamento degli Ungulati rappresenta, per quanto i dati disponibili possono testimoniare, un incremento a volte anche molto marcato del numero degli individui. Infatti, sono già 20 anni che la presenza della specie crea un impatto in alcuni casi anche negativo sul territorio in termini economici e sociali, derivanti dall’impatto che la loro presenza determina sull’agricoltura, i boschi e la sicurezza stradale. Quest’ultimo punto, in particolare, è venuto alla ribalta negli ultimi giorni a causa di tristissimi fatti di cronaca che hanno funestato queste giornate di festa. Per questo pensiamo che occorra rendere l’attività di controllo più incisiva e predisporre dei protocolli tecnici con l’ISPRA a livello regionale. In questo modo ci doteremmo di strumenti di azione univoci su tutto il territorio, aventi un obbiettivo preciso. A questo scopo proponiamo la realizzazione di un “Progetto per la realizzazione di una banca dati sulla distribuzione, consistenza e gestione degli ungulati in tutta l’Italia”. Il monitoraggio delle popolazioni animali è il presupposto di base che permette di acquisire le informazioni necessarie per la conservazione e la scelta dei modelli gestionali da applicare. La conoscenza della popolazione prevede la definizione dei parametri di: distribuzione, consistenza, densità e struttura delle rispettive specie di animali. Quindi dovranno essere analizzate la distribuzione e la struttura della popolazione indagata, le sue esigenze ecologiche e l’entità del prelievo nel contesto ambientale in cui si andrà ad operare, nonché il tasso di mortalità in funzione degli obbiettivi gestionali prefissati; questo permetterà di fissare dei valori di soglia limite, rispetto ai quali non sarà opportuno praticare il prelievo.

Il cacciatore di selezione, per praticare questa forma di prelievo, deve acquisire un notevole bagaglio culturale, sia attraverso corsi di formazione con severi esami finali, che attraverso la pratica sul campo. Un percorso formativo che lo porterà prima a poter collaborare con profitto alle attività di censimento, e poi a poter riconoscere con sicurezza il capo che gli è stato assegnato e ad abbatterlo in modo netto e pulito. Questo è fondamentale in un tipo di caccia che si propone di prelevare in modo conservativo, ovvero senza causare il declino di una popolazione. Per questo, l’Associazione crede, in modo deciso, che questa caccia sostenibile sia sicuramente il modo più corretto di insidiare non solo cervidi e bovidi, ma un po’ tutta la selvaggina stanziale. Il corretto cacciatore di selezione, infatti, intervenire nell’habitat naturale con cognizione di causa, evitando gravi alterazioni della struttura naturale della popolazione. Per questo, Arci Caccia Umbria intende, non solo mettere a disposizione di tutti, cacciatori e non, le idee e le esperienze maturate, ma soprattutto ascoltare la voce dei tecnici per raggiungere gli obbiettivi esposti, cosicché, in estrema sintesi, si possa intraprendere la strada per una nuova gestione, “NON DA PROMETTERE MA DA REALIZZARE”. Un’iniziativa locale ma che potrebbe risultare vincente anche a livello Nazionale per cercare di dare un migliore futuro all’attività venatoria.

CCT: animalisti distruggono appostamento fisso di caccia

La notizia di oggi è incentrata su un grave atto di vandalismo animalista, messo in atto in provincia di Pisa ai danni di un appostamento fisso di caccia agli acquatici. Gravi danni sono stati provocati alla struttura e dispersi numerosi oggetti e stampi di richiami. Un atto di vera e propria intimidazione e aggressione, rivendicato dal “Fronte Liberazione Animale” che ha lasciato la propria firma con un volantino rinvenuto dal proprietario dell’appostamento. Dell’accaduto se ne stanno occupando i Carabinieri di Navacchio ai quali è stata sporta denuncia da parte del cacciatore. Dopo i fatti accaduti in altre realtà regionali, anche in Toscana sembra dilagare un fenomeno che vede come attori, alcuni pericolosi “invasati”, animati da odio e livore anticaccia, che agendo spesso nell’ombra, provocano veri e propri raid punitivi contro chi legittimamente svolge una attività nel rispetto della legge. Forse sarebbe l’ora che da tali frange estreme prendessero le distanza anche le Associazioni Ambientaliste poiché tali azioni non possono certo essere alla base di una civile convivenza ne tollerabili sul piano del confronto democratico. Tali episodi, dimostrano ancora una volta come i cacciatori, spesso strumentalmente denigrati all’opinione pubblica, rappresentino complessivamente una comunità di uomini e donne rispettosi delle leggi e fortemente ancorati ai valori di civiltà e democrazia. Fiduciosi del lavoro delle forze dell’ordine finalizzato all’individuazione dei responsabili, la Confederazione Cacciatori Toscani non esiterà ad intraprendere le necessarie azioni ed iniziative finalizzate alla tutela di tutti i cacciatori coinvolti in simili episodi; già da ora ha attivato i propri legali per valutare i passi necessari in sede penale e civile contro i responsabili di questi vili quanto sconsiderati atti di intolleranza anticaccia.

CCT: cinghiali in autostrada, come e perche’!

Gli incedenti stradali provocati dalla fauna selvatica e soprattutto dai cinghiali, sono tristemente tornati alla cronaca all’ indomani del tragico evento sull’autostrada A1, tra Lodi e Castelpusterlengo.

Come sempre avviene in questo paese, abbiamo dovuto assistere alla solita sequenza di accuse e contro accuse in un rimpallo di responsabilità che spesso lascia sconcertati. Ad un fenomeno complesso e frutto di una larga serie di concause si sono date letture semplicistiche e talvolta inaccettabili, soprattutto quando si tende a riversare ogni responsabilità sui cacciatori, tralasciando qualsiasi analisi che riporti la trattazione del problema sul piano della gestione faunistica – ambientale. I cinghiali sulle rotatorie e tra i cassonetti di Roma ed altre grandi città, non sono il frutto di un destino cinico e baro ma bensì la conseguenza di una serie di modificazioni ambientali e ritardi legislativi ai quali la pubblica amministrazione e le categorie interessate spesso non hanno saputo trovare le risposte corrette. Al contrario di altri che in questi giorni hanno divulgato la notizia con spirito polemico e chiare intenzioni strumentali, la Confederazione Cacciatori Toscani ritiene opportuno pubblicare di seguito un interessante approfondimento nella speranza di dare un contributo serio e oggettivo su questo delicato argomento.

“Come e perché i cinghiali sono arrivati sull’ autostrada A1 nel tratto tra Lodi e Casalpusterlengo il 3 gennaio scorso, causando una carambola mortale è una domanda impegnativa e complessa che sottende e prevede una risposta altrettanto impegnativa e complessa. Diffidiamo quindi delle risposte semplici o semplicistiche, con effetto a scaricabarile (della serie è colpa dei cacciatori, è colpa dei parchi, è colpa degli ambientalisti) perché l’incremento dei cinghiali in Italia, per la verità non solo di quelli ma di tutti gli ungulati selvatici, è un fenomeno naturale complesso, che avviene su di una scala biogeografia Europea ed è legato a una miscela esplosiva e sinergica di fattori naturali, sociali e macro economici che agiscono da almeno 50-70 anni e che non può e non deve ridursi all’individuazione di colpevoli di turno o capri espiatori (per esempio dei cacciatori) come colpevoli del misfatto. Questa ultima (è colpa dei cacciatori) può essere una risposta di comodo, semplicistica, facile da comprendere, di impatto emotivo e facilmente assimilabile da tutti coloro che ignorano la materia, ma è solo il dito su cui ci si focalizza, perdendo di vista la luna. Se avrete la pazienza di leggere il seguito capirete anche il perché.

In Italia il cinghiale ha subito, negli ultimi decenni (parliamo di un arco temporale ormai di 50-70 anni), un consistente incremento demografico (che accomuna l’Italia a tutti i Paesi Europei per la verità e questo elemento da solo dovrebbe portare a riflettere sulla scala e sulle vere origini del fenomeno) che ha comportato un considerevole aumento dell’areale distributivo della specie causato dalla colonizzazione da parte del suide di tutte le aree di presenza storica e delle aree non occupate in precedenza. La sistematica del cinghiale in Italia, a livello sottospecifico, costituisce un problema di non facile soluzione, dato che la specie è progressivamente andata incontro a una ibridazione sia con individui selvatici di provenienza estera sia con individui domestici (maiale) lasciati al pascolo brado: attualmente possiamo affermare che, almeno a livello fenotipico (cioè dell’aspetto e caratteristiche esteriori), esistono grossolanamente sul territorio Italiano tre forme di cinghiale: il cinghiale di fenotipo “centro europeo” di grossa taglia ascrivibile genericamente alla forma nominale Sus scrofa scrofa, il cinghiale maremmano di minori dimensioni che sarebbe riconducibile alla sottospecie Sus scrofa majori e il cinghiale sardo di aspetto e dimensioni simili al cinghiale maremmano, riconducibile alla sottospecie Sus scrofa meridionalis. Tuttavia, nonostante le variazioni di aspetto e di mole presenti tra le tre forme (spesso causate da fattori alimentari e adattamenti locali), fino ad oggi non sono state riscontrate differenze sostanziali e significative a livello craniometrico e genetico tra la forma descritta in passato come Sus scrofa majori (il cinghiale maremmano) e la forma presente in tutto il resto della penisola.
Per quanto riguarda la forma meridonalis presente in Sardegna, si ipotizza invece un’origine da popolazioni domestiche rinselvatichite. Ma tralasciamo per un po’ la genetica e veniamo all’ecologia della specie. Oggi quindi riassumendo e semplificando siamo di fronte a un cinghiale Italico “globalizzato”, frutto di una serie di incroci naturali e di origine antropica (maiale). Questo è e ci possiamo fare poco.

In tempi storici dobbiamo ricordare che il cinghiale si trovava in gran parte del territorio italiano. Non volendo partire dai Romani (che consideravano il cinghiale una vera e propria peste che devastava i raccolti agricoli e per questo lo cacciavano attivamente) ad iniziare dalla fine del 1500 la persecuzione diretta cui venne sottoposto (essenzialmente caccia per consumo alimentare) ne determinò la progressiva rarefazione ed estinzione a livello locale, in molte località della penisola. La specie scomparve dal Trentino nel XVII secolo, dal Friuli e dalla Romagna nel XIX, dalla Liguria nel 1814, mentre in Sicilia era ritenuto raro e localizzato nel 1868 ed estinto pochi anni dopo tale data. Nel 1919 alcuni cinghiali provenienti dalla Francia raggiunsero la Liguria e il Piemonte in seguito a una espansione numerica della specie dovuta alla sospensione de facto della caccia negli anni della prima guerra mondiale. Nel periodo compreso fra gli anni 1930 e 1950 scomparvero le ultime popolazioni viventi sul versante adriatico della Penisola Italiana. In pratica nelle prime decadi del 1900 in Italia sopravvivevano pochi nuclei di cinghiali nelle selve della Maremma Tosco Laziale e in alcune aree dell’ Appennino Centro Meridionale.

A questa fase negativa (comune agli altri ungulati selvatici e al loro principale predatore, cioè il lupo) ne è subentrata progressivamente una di crescita naturale delle popolazioni e di ampliamento dell’areale che ha avuto inizio nel secondo dopoguerra per azioni antropiche dirette e indirette ma soprattutto per fattori socio (macro)economici e ambientali o naturali che hanno consentito l’iniziale incremento demografico del cinghiale in Europa.

Il recupero del bosco nelle aree agricole e pastorali abbandonate dopo la seconda guerra mondiale, importante fattore naturale che governa i processi ecologici di successione vegetativa secondaria e lo spopolamento generalizzato di vaste fasce dell’Italia appenninica e la conseguente diminuzione della presenza e pressione umana (fattore socio economico indirettamente legato all’uomo) hanno ulteriormente favorito e amplificato l’espansione della specie. Quindi se la miccia è stata accesa (inconsapevolmente) dall’uomo 60 anni fa, il carburante e l’esplosivo è frutto di processi di portata molto superiore e di una forza tale da portare il cinghiale e gli ungulati selvatici, a incrementi esponenziali in tutto il contesto biogeografico Europeo (la nostra luna nella metafora del dito che punta alla luna). Mi spiego meglio: in Italia, a partire dagli anni ‘50, è stata avviata una campagna di introduzione della specie attraverso l’immissione o “lancio” di contingenti di animali importati dall’Europa orientale (Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia) per utilizzi venatori. Nei primi anni 60, a titolo di esempio, in provincia di Siena i cacciatori locali accoglievano con soddisfazione le immissioni di cinghiali effettuate da parte della Provincia nel territorio del Chianti: a quasi sessanta anni di distanza il rapporto tra le popolazioni sempre crescenti di cinghiali e le coltivazioni di viti Chianti Classico DOCG è diventato difficile e impegnativo da gestire, anche da parte dei cacciatori organizzati nelle squadre di caccia al cinghiale. Sarebbe ed è sbagliato però imputare al solo mondo venatorio la responsabilità di queste immissioni: molti apparati dello Stato ed Enti Territoriali (Province e Regioni) hanno avvallato, praticato ed incentivato queste immissioni (come del resto quelle dei cervi, dei mufloni, dei caprioli e dei daini) nella profonda convinzione (allora) che l’introduzione o la reintroduzione degli ungulati nell’Appennino che si spopolava, avrebbe comportato vantaggi per ampi settori del mondo naturale e rurale, oltre che di quello venatorio. Dobbiamo poi considerare che la società e la cultura dell’opinione pubblica negli anni 50 e 60 erano profondamente diverse dalle attuali: siamo nell’immediato dopo guerra ancora profondamente attaccati a una cultura rurale di mezzadria, della caccia nelle Riserve padronali, delle aree protette quasi inesistenti, salvo 2 o 3 Parchi Nazionali (oggi siamo a 24 Parchi Nazionali e decine di aree protette regionali per complessivi 3 milioni di ettari del territorio italiano), degli ungulati selvatici e del lupo ridotti al lumicino, insomma siamo di fronte a un mondo totalmente diverso dall’attuale. Si è accennato sopra alle aree protette e sicuramente l’incremento delle aree protette soprattutto in ampie zone dell’Appennino centro meridionale, ha comportato la creazione di fatto di polmoni di salvaguardia e di riproduzione del cinghiale e di tutti gli altri ungulati selvatici: ecco un altro tassello del nostro puzzle complesso. Contestualmente, dagli anni 50 a oggi, l’agricoltura e la zootecnia progressivamente collassano in Italia e in tutta Europa tanto che la Comunità Europea deve pompare miliardi di Euro per tenere in piedi il mondo agricolo e zootecnico, che ricordiamo è un settore primario fondamentale per l’uomo e per le economie avanzate, e che però la cultura cittadina e l’economia industriale, digitale e infine globale travolgono, relegandole, purtroppo, ad attività di nicchia e marginali, che non reggono più un economia di mercato globalizzato. Il paradosso che si verifica e che si concretizza in 60 anni, quasi come una legge del contrappasso, è che mano a mano che l’agricoltura scompare e l’Italia diviene sempre più industrializzata e opulenta, il bosco (la selva oscura di Dante) avanza inesorabile al ritmo di 110 mila ettari l’anno nel solo territorio Italiano e alla stupefacente portata di 700 mila ettari l’anno in Europa (Fonte dati Eurostat e Inventario Forestale Italiano). Più l’Europa si industrializza e si civilizza e più la Natura prende il sopravvento, sospinta anche dal global warming o riscaldamento globale (elemento importantissimo nella nostra vicenda e che potremmo definire la faccia nascosta della nostra luna) che spinge le foreste Europee di querce, di faggi e di castagni, ad espandersi, a produrre più frutti e con più frequenza (maggior frequenza delle annate di pasciona). Se pensiamo che un ettaro di querceto all’anno produce l’equivalente di 14 quintali di unità foraggere, virtualmente disponibili per gli ungulati selvatici, capiamo quale sia l’entità e la portata del fenomeno naturale che sta sospingendo le popolazioni di cinghiali e di ungulati selvatici a crescere e riprodursi in Italia e in tutta Europa.

In Italia oggi l’habitat idoneo ad ospitare il cinghiale si estende in maniera quasi illimitata dalla pianura alla montagna, ad esclusione delle aree intensamente coltivate o comunque prive di copertura vegetazionale atta a fornire rifugio alla specie. In generale l’habitat tipicamente vocato alla specie sarebbe rappresentato dai boschi e dalle zone di transizione con le aree aperte (ecotoni) con abbondante vegetazione arbustiva spontanea, ma oggi ogni ambiente che abbia acqua, zone di rifugio, e di alimentazione è di fatto l’habitat vocato per la specie (anche le città come Genova, Torino, Firenze, Roma etc…)

La “plasticità” trofica del cinghiale gli consente di modificare la dieta in funzione dell’offerta di cibo che i vari ambienti sono in grado di fornire. L’entità dell’impatto del cinghiale nei diversi ecosistemi (boschivi e agrari) dipende quindi dall’interazione tra le sue caratteristiche ecologiche e la quantità e la qualità di cibo fornita dai diversi ambienti nel corso dell’anno. Negli anni siccitosi o negli anni in cui è minima la produzione di frutti forestali (soprattutto ghiande, faggiole e castagne), aumenta il consumo delle essenze coltivate e quindi aumentano i danni all’agricoltura. Più cinghiali ci sono, più si spostano e più attraversano le strade con le conseguenza che sappiamo.

Nel panorama Italiano (dove si stima una consistenza di cinghiali superiore al milione di capi), dal punto di vista gestionale e di presenza della specie, si registrano situazioni di forte presenza di cinghiale come in Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Toscana e Umbria in cui l’entità dei danni causati dalla specie alle coltivazioni agricole è tale da comportare importanti conflitti sociali tra agricoltori da un lato e mondo venatorio e aree protette dall’altro: per la Regione Toscana, a titolo di esempio, il carniere ufficiale e denunciato sfiora i 100 mila cinghiali annui e sul complessivo dei danni accertati dal 2000 al 2018 (compresi tra i due e i 4 milioni di euro) il cinghiale è responsabile di una percentuale compresa tra il 67 e il 72%. I fattori che regolano principalmente le densità del cinghiale oggi sono principalmente: 1) le temperatura nel mese di Gennaio che più basse sono e più a lungo si mantengono basse a meno cinghiali consentono di vivere (ma abbiamo visto che con il surriscaldamento climatico in realtà le temperature tendono ad aumentare costantemente); 2) la produttività della vegetazione (ghiande e faggiole in particolare), legato a sua volta alle temperature medie. 3) la presenza di malattie o zoonosi come la recente comparsa e preoccupante espansione della Peste Suina Africana in alcuni Paesi del centro est Europa. Contrariamente a quanto si pensi le densità del cinghiale dipendono poco dalla presenza del lupo, che è si il principale predatore della specie nei Paesi meridionali Europei, ma che agisce più da regolatore e selettore delle popolazioni, piuttosto che da decisivo fattore limitante (esattamente come i leoni non portano a una diminuzione o scomparsa delle zebre).

A scala locale invece l’attività venatoria determina forti variazioni di densità del cinghiale ed è il principale fattore limitante della specie oltre alle basse temperature: tuttavia se consideriamo una scala temporale medio lunga e un areale biogeografico vasto, è improbabile che l’attività venatoria sia la principale spiegazione delle ampie variazioni nell’abbondanza del cinghiale e, non sembra soprattutto essere attività limitante della demografia del cinghiale su vasta scala. Questo perché la vastità, la potenza e la portata dei fattori naturali e sociali che favoriscono l’accrescimento delle specie di ungulati e di cinghiale in primis, sono oltre la nostra capacità di azione a grande scala.

Vedete come ora, che il quadro è composto, è possibile capire come l’incremento demografico del cinghiale è avvenuto, avviene e avverrà per cause naturali e/o indotte dall’uomo, a prescindere dal modello giuridico e politico venatorio degli Stati Europei e dall’approccio gestionale che viene applicato: Madre Natura ora governa la materia e l’uomo ha agito esattamente come quando si tira una palla di neve su un pendio carico di oltre 3 metri di accumulo nevoso. L’uomo innesca sì la valanga ma la valanga è data dai 3 metri di neve accumulati. Ecco quindi perché i cinghiali sono arrivati in autostrada senza patente e hanno causato il drammatico incidente: è una punta di un Icerberg o se vogliamo un sasso della nostra Luna.

Quindi la domanda legittima è: come se ne esce? L’unica via certa e sicura, ma complessa, irta e difficoltosa è la tecnica, non certo l’emotività, l’ideologia, la credenza o la superstizione.
Il vero nodo del problema è il controllo (tecnicamente gestito) costante delle crescenti popolazioni di cinghiali (e di ungulati). Diventa quindi essenziale definire: tempi, modi, luoghi in cui intervenire. Bisogna programmare interventi coordinati a 360° gradi (abbattimenti, catture, prevenzione etc…) e su tutto il territorio, aree protette comprese, non tralasciando ma valorizzando il contributo importante che può e deve essere dato dal mondo venatorio, che ovunque in Europa rappresenta la principale fonte di manodopera gratuita nella gestione del cinghiale e della fauna selvatica in generale.

Bisogna mettere in campo un programma coordinato di interventi e di sostegno economico agricolo e di uso, anche alimentare, del cinghiale e della fauna selvatica di livello Europeo, Misure del PSR, o analoghe a quelle LIFE o per RETE NATURA 2000, che messe in campo tutte insieme provino a contrastare la grande forza che surriscaldamento globale e riforestazione, stanno generando nella crescita delle popolazioni di ungulati selvatici.

Al di là degli errori del passato, che ci sono stati ma non sono più rimediabili (se non tornando indietro nel tempo, cosa per ora impossibile stante la Relatività di Einstein), ci sono alcuni assunti o constrains che se non si comprendono o non si tengono in considerazione non si riesce ad inquadrare il problema della gestione del cinghiale e in generale della gestione faunistica in Italia (compresa quella dei cinghiali sull’autostrada A1).

1) L’ambiente naturale Italiano (la Natura d’Italia) è legato direttamente o indirettamente alle attività umane che storicamente (vogliamo partire dai Romani ? Dal Medio Evo ?) hanno modellato il paesaggio, i boschi e le foreste e la fauna ivi compresa che vi proliferava e vi prolifera. Non esistono in Italia Ecosistemi di grandezza di portata e con dinamiche naturali paragonabili a Yellowstone o il Serengeti etc….e anche per questi ecosistemi a volte l’intervento dell’uomo è stato determinante (p. es. introduzione del Lupo nello Yellowstone, cacciata del popolo Masai fuori dal Serengeti). Per cui, le dinamiche ecologiche che si evidenziano bene nello Yellowstone si evidenziano con più difficoltà o per niente in Regione Toscana, perché le attività umane interferiscono molto di più, in più direzioni e più velocemente.
2) Ergo: qualsiasi evoluzione di un ecosistema Italiano non può essere pensata o studiata o gestita, senza tenere conto delle variabili di origine antropica, compresi i danni economici che la fauna procura (agricoltura, silvicoltura, zootecnia e incidenti stradali appunto), gli impatti sociali, culturali etc… etc….
3) La perdita di attività agricole o zootecniche di origine e conduzione antropiche legate all’utilizzo del territorio sono per il nostro Paese, una grave perdita in termini di biodiversità (spariscono gli agro ecosistemi e gli ecotoni) oltreché una perdita di attività economiche e di patrimoni culturali e di razze animali domestiche “antiche”.
4) La gestione faunistica dei vertebrati (tutti e cinghiale in primis) e dei loro habitat sarà sempre di più necessaria nel nostro Paese e la gestione implica, come si apprende nelle lezioni basilari dei Corsi Universitari, introduzioni, rimozioni selettive (fucile, catture, traslocazioni, trappole gestite da specialisti), monitoraggi, abbattimenti, conservazione, protezione etc…etc…. ossia monitoraggio, manipolazione, a volte anche invasiva, e soprattutto gestione adattativa, anno dopo anno, in cui si verificano i risultati e si calibrano gli interventi dell’anno successivo in base ai risultati.

La sfida per le generazioni future e per i Governi che verranno, è quella di far entrare in un ciclo produttivo virtuoso per tutti i cittadini la fauna selvatica (cinghiale in primis) come bene, risorsa comune (caccia, controllo selettivo, ecoturismo, filiera della carne selvatica, birdwatching, etc….) fauna selvatica che non può e non deve pesare su singole categorie di cittadini o su singoli settori produttivi o sugli automobilisti che transitano nelle strade. Se non comprendiamo questo e non agiamo verso e con la gestione adattativa (compreso il contrasto alle malattie come la peste Suina), non facciamo altro che incrementare, relativamente alla fauna selvatica, un’attività di origine antropica più subdola e poco verificabile: il bracconaggio diffuso e l’anarchia gestionale. Con buona pace di una ipocrisia ambientalista diffusa “pet oriented” che permea molti settori dell’opinione pubblica e del Parlamento del nostro Paese.
Ricordiamoci infatti che la Fauna selvatica e il cinghiale non sono animali da compagnia o di affezione: sono un patrimonio naturale indisponibile dello Stato che va conservato, protetto ma soprattutto gestito affinché la presenza della fauna non si ritorca contro l’uomo stesso.

Come vedete, se siete arrivati in fondo alla lettura, era più semplice rispondere: è colpa dei cacciatori.”

Dott. Federico Morimando
Dottore in Scienze naturali e dottore di ricerca in Zoologia

Marche: L’Assessore alla Caccia, Moreno Pieroni interviene sul problema dei danni causati dai cinghiali, dopo l’ennesimo grave incidente stradale

“ Alla luce dei gravi fatti di cronaca nazionale degli ultimi giorni a causa di incidenti provocati dai cinghiali, non posso non sottolineare quanto le misure adottate dalla Regione vadano nella direzione di prevenire simili episodi. Stiamo vivendo una situazione al limite del paradosso: da una parte una tendenza all’aumento dei danni provocati dai cinghiali e dall’altro un possibile stallo del contenimento di questa specie e della riduzione dei danni. C’è un dato che dovrebbe fugare ogni dubbio sull’utilità delle misure adottate dalla Regione in materia di controllo degli ungulati e in particolare della caccia di selezione: oltre ai danni in agricoltura ( per una media di 600-700 mila euro all’anno), l’aumento delle richieste di indennizzo dovute per incidenti nella circolazione stradale a causa della fauna selvatica che per il 2017-2018 ammontano a 400 mila euro a cui si aggiungono i risarcimenti previsti da sentenze per altri 440 mila euro. Somme importanti che paga tutta la comunità e che potevano essere destinate per altri interventi, somme che abbiamo cercato di contenere attraverso un prelievo costante della fauna selvatica nelle zone stabilite, prevedendo un calendario che copre 11 mesi all’anno e con altri interventi per la cattura. Bene, se non si comprende che, a fronte dell’espansione di questa specie a livello europeo, qualsiasi tipologia di blocco andrà a minare gli equilibri così difficilmente raggiungibili e ogni sforzo sarà vano, non avremo più sostenibilità ambientale ma solo maggiori oneri per tutti i cittadini, indipendentemente dalle categorie. Siamo di fronte ad una vera e propria emergenza che va affrontata con razionalità e buon senso e non a colpi di polemiche politiche, un buon senso anche di qualche associazione ambientalista che finalmente, dopo l’ennesimo grave incidente, propone ora un Piano straordinario per la gestione del cinghiale a livello nazionale e una normativa sulla gestione della fauna selvatica. Segno che si tratta di un problema reale e grave che riguarda non solo i cacciatori o gli ambientalisti ma tutta la comunità e che la Regione Marche ha affrontato con responsabilità e consapevolezza adottando tutte le azioni idonee – dalla caccia a squadra che è quella più incisiva , fino a quella di selezione, agli incentivi per i recinti, trappole e altre attrezzature – a contenere i danni.”

Nominato il nuovo CAV (Coordinamento Associazioni Venatorie ) della provincia di Salerno.

La prima iniziativa: richiesta di proroga della chiusura della caccia al cinghiale al 31 gennaio 2019.
Venerdì 4 Gennaio 2019, alle ore 18,30, presso la Sezione Provinciale Enalcaccia di Salerno si sono riuniti i Presidenti Provinciali delle Associazioni Venatorie: Ciro Mascolo, Presidente ANUU; Luigi Botta, Presidente ARCICACCIA; Dino Torre, Presidente ENALCACCIA; Antonello D’Acunto, Presidente EPS; Domenico Della Corte, Presidente ITALCACCIA; Ferdinando Nocera, Presidente A.N.L.C., aderenti al CAV (Coordinamento Associazioni Venatorie).
Il Cav, all’unanimità, ha nominato Coordinatore il Sig. Luigi Botta, Presidente Provinciale Arcicaccia.
Compito prioritario del Coordinamento sarà quello di rafforzare i rapporti di collaborazione tra le associazioni venatorie e gli Ambiti Territoriali di Caccia, la Regione Campania, le Associazioni Agricole e Ambientali, auspicando che l’unità del mondo venatorio porti ad una maggiore sinergia con le istituzioni preposte alla caccia e ad un miglioramento dei risultati nella gestione dell’Attività Venatoria, sempre più sostenibile, in provincia di Salerno.
Come prima iniziativa, il neo costituito CAV della Provincia di Salerno, considerati i numerosi danni provocati dai cinghiali e gli incidenti anche mortali verificatisi, anche di recente, sulle strade, ha inoltrato un’istanza alla Regione Campania con la quale ha richiesto la proroga dell’attività venatoria al cinghiale al 31 gennaio 2019 e la chiusura delle prossime stagioni venatorie al 31 gennaio.

Salerno, 8 Gennaio 2019

Oggetto: richiesta proroga termini per l’esercizio dell’attività venatoria
al cinghiale.

Illustre Sig. Presidente,

il neo costituito CAV (Coordinamento Associazioni Venatorie) della Provincia di Salerno, che all’esito della riunione tenutasi lo scorso 4 gennaio mi ha indicato quale nuovo Coordinatore, composto dalle Associazioni Venatorie ANUU, ARCICACCIA, ENALCACCIA, EPS, ITALCACCIA ed ANLC e ricostituito nell’interesse dell’unità del Mondo Venatorio per affrontare e possibilmente dirimere, di concerto con le Istituzioni a ciò preposte, i numerosi problemi che occupano il mondo della Caccia, mi ha conferito mandato di rivolgerLe istanza, alla luce delle particolari criticità connesse e conseguenti alla eccessiva ed incontrollata proliferazione dei cinghiali su tutto il territorio regionale, che provocano danni sia a persone che cose, oltre che all’ambiente in generale ed all’agricoltura, di voler disporre, con l’urgenza del caso e con i provvedimenti che riterrà idonei, una proroga del termine di chiusura della caccia al cinghiale sul territorio libero della Regione Campania, già prevista dal vigente calendario venatorio per il 31.12.18 appena trascorso, almeno con scadenza da fissarsi al prossimo 31.1.2019.
La misura richiesta sarebbe particolarmente utile non solo ad evitare, almeno in parte, il rilevante esborso di denaro pubblico che la Regione Campania è costretta a pagare quotidianamente al fine di risarcire i danni a persone e/o cose prodotti dai cinghiali, ma anche e soprattutto a prevenire eventi particolarmente gravi, come quello luttuoso accaduto a seguito del recente gravissimo incidente stradale sull’Autosole a Lodi, di cui è stato dato ampio spazio sulla cronaca nazionale e locale, dove alcuni cinghiali hanno invaso la pubblica via causando la morte di un automobilista in transito ed il ferimento di altre dieci persone.
Il segnalato episodio è solo l’ultimo in termine temporale e segue numerosissimi altri fatti analoghi, non ultimo quello occorso ad una vettura della Polizia Provinciale di Salerno, che tempo fa ha investito un branco di cinghiali che avevano invaso la locale tangenziale, riportando notevoli danni, senza calcolare le quotidiane pericolose invasioni di centri abitati da parte degli anzidetti ungulati, che vagano alla ricerca di cibo.
Quanto precede, atteso che non è in contrasto con nessuna norma dello Stato e che numerose regioni italiane (Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Emilia Romagna, Marche, Lazio, Abruzzo, Puglia, Sicilia e Sardegna) hanno già fissato la chiusura della stagione venatoria al cinghiale al 31 gennaio 2019, quale misura, tra l’altro, utile al contenimento degli ungulati e, sicuramente, alla prevenzione degli anzidetti danni.
Sicchè, mio tramite, il CAV della Provincia di Salerno, nel formularLe qui, formalmente, la richiesta nei sensi suindicati e per le ragioni esposte, La prega anche di voler disporre affinchè, anche per le prossime stagioni venatorie, la chiusura della caccia al cinghiale venga fissata alla data del 31 gennaio, e non al 31 dicembre di ogni anno, come fin qui accaduto.
Confidando nella Sua consueta attenzione alle problematiche del territorio ed alla sicurezza ed incolumità della Comunità amministrata, con conseguente esito favorevole della presente istanza, Le porgo i miei più rispettosi ossequi e ringraziamenti.

Salerno, 8 Gennaio 2019

Il Coordinatore del CAV della Provincia di Salerno

Luigi BOTTA

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