Gli incedenti stradali provocati dalla fauna selvatica e soprattutto dai cinghiali, sono tristemente tornati alla cronaca all’ indomani del tragico evento sull’autostrada A1, tra Lodi e Castelpusterlengo.
Come sempre avviene in questo paese, abbiamo dovuto assistere alla solita sequenza di accuse e contro accuse in un rimpallo di responsabilità che spesso lascia sconcertati. Ad un fenomeno complesso e frutto di una larga serie di concause si sono date letture semplicistiche e talvolta inaccettabili, soprattutto quando si tende a riversare ogni responsabilità sui cacciatori, tralasciando qualsiasi analisi che riporti la trattazione del problema sul piano della gestione faunistica – ambientale. I cinghiali sulle rotatorie e tra i cassonetti di Roma ed altre grandi città, non sono il frutto di un destino cinico e baro ma bensì la conseguenza di una serie di modificazioni ambientali e ritardi legislativi ai quali la pubblica amministrazione e le categorie interessate spesso non hanno saputo trovare le risposte corrette. Al contrario di altri che in questi giorni hanno divulgato la notizia con spirito polemico e chiare intenzioni strumentali, la Confederazione Cacciatori Toscani ritiene opportuno pubblicare di seguito un interessante approfondimento nella speranza di dare un contributo serio e oggettivo su questo delicato argomento.
“Come e perché i cinghiali sono arrivati sull’ autostrada A1 nel tratto tra Lodi e Casalpusterlengo il 3 gennaio scorso, causando una carambola mortale è una domanda impegnativa e complessa che sottende e prevede una risposta altrettanto impegnativa e complessa. Diffidiamo quindi delle risposte semplici o semplicistiche, con effetto a scaricabarile (della serie è colpa dei cacciatori, è colpa dei parchi, è colpa degli ambientalisti) perché l’incremento dei cinghiali in Italia, per la verità non solo di quelli ma di tutti gli ungulati selvatici, è un fenomeno naturale complesso, che avviene su di una scala biogeografia Europea ed è legato a una miscela esplosiva e sinergica di fattori naturali, sociali e macro economici che agiscono da almeno 50-70 anni e che non può e non deve ridursi all’individuazione di colpevoli di turno o capri espiatori (per esempio dei cacciatori) come colpevoli del misfatto. Questa ultima (è colpa dei cacciatori) può essere una risposta di comodo, semplicistica, facile da comprendere, di impatto emotivo e facilmente assimilabile da tutti coloro che ignorano la materia, ma è solo il dito su cui ci si focalizza, perdendo di vista la luna. Se avrete la pazienza di leggere il seguito capirete anche il perché.
In Italia il cinghiale ha subito, negli ultimi decenni (parliamo di un arco temporale ormai di 50-70 anni), un consistente incremento demografico (che accomuna l’Italia a tutti i Paesi Europei per la verità e questo elemento da solo dovrebbe portare a riflettere sulla scala e sulle vere origini del fenomeno) che ha comportato un considerevole aumento dell’areale distributivo della specie causato dalla colonizzazione da parte del suide di tutte le aree di presenza storica e delle aree non occupate in precedenza. La sistematica del cinghiale in Italia, a livello sottospecifico, costituisce un problema di non facile soluzione, dato che la specie è progressivamente andata incontro a una ibridazione sia con individui selvatici di provenienza estera sia con individui domestici (maiale) lasciati al pascolo brado: attualmente possiamo affermare che, almeno a livello fenotipico (cioè dell’aspetto e caratteristiche esteriori), esistono grossolanamente sul territorio Italiano tre forme di cinghiale: il cinghiale di fenotipo “centro europeo” di grossa taglia ascrivibile genericamente alla forma nominale Sus scrofa scrofa, il cinghiale maremmano di minori dimensioni che sarebbe riconducibile alla sottospecie Sus scrofa majori e il cinghiale sardo di aspetto e dimensioni simili al cinghiale maremmano, riconducibile alla sottospecie Sus scrofa meridionalis. Tuttavia, nonostante le variazioni di aspetto e di mole presenti tra le tre forme (spesso causate da fattori alimentari e adattamenti locali), fino ad oggi non sono state riscontrate differenze sostanziali e significative a livello craniometrico e genetico tra la forma descritta in passato come Sus scrofa majori (il cinghiale maremmano) e la forma presente in tutto il resto della penisola.
Per quanto riguarda la forma meridonalis presente in Sardegna, si ipotizza invece un’origine da popolazioni domestiche rinselvatichite. Ma tralasciamo per un po’ la genetica e veniamo all’ecologia della specie. Oggi quindi riassumendo e semplificando siamo di fronte a un cinghiale Italico “globalizzato”, frutto di una serie di incroci naturali e di origine antropica (maiale). Questo è e ci possiamo fare poco.
In tempi storici dobbiamo ricordare che il cinghiale si trovava in gran parte del territorio italiano. Non volendo partire dai Romani (che consideravano il cinghiale una vera e propria peste che devastava i raccolti agricoli e per questo lo cacciavano attivamente) ad iniziare dalla fine del 1500 la persecuzione diretta cui venne sottoposto (essenzialmente caccia per consumo alimentare) ne determinò la progressiva rarefazione ed estinzione a livello locale, in molte località della penisola. La specie scomparve dal Trentino nel XVII secolo, dal Friuli e dalla Romagna nel XIX, dalla Liguria nel 1814, mentre in Sicilia era ritenuto raro e localizzato nel 1868 ed estinto pochi anni dopo tale data. Nel 1919 alcuni cinghiali provenienti dalla Francia raggiunsero la Liguria e il Piemonte in seguito a una espansione numerica della specie dovuta alla sospensione de facto della caccia negli anni della prima guerra mondiale. Nel periodo compreso fra gli anni 1930 e 1950 scomparvero le ultime popolazioni viventi sul versante adriatico della Penisola Italiana. In pratica nelle prime decadi del 1900 in Italia sopravvivevano pochi nuclei di cinghiali nelle selve della Maremma Tosco Laziale e in alcune aree dell’ Appennino Centro Meridionale.
A questa fase negativa (comune agli altri ungulati selvatici e al loro principale predatore, cioè il lupo) ne è subentrata progressivamente una di crescita naturale delle popolazioni e di ampliamento dell’areale che ha avuto inizio nel secondo dopoguerra per azioni antropiche dirette e indirette ma soprattutto per fattori socio (macro)economici e ambientali o naturali che hanno consentito l’iniziale incremento demografico del cinghiale in Europa.
Il recupero del bosco nelle aree agricole e pastorali abbandonate dopo la seconda guerra mondiale, importante fattore naturale che governa i processi ecologici di successione vegetativa secondaria e lo spopolamento generalizzato di vaste fasce dell’Italia appenninica e la conseguente diminuzione della presenza e pressione umana (fattore socio economico indirettamente legato all’uomo) hanno ulteriormente favorito e amplificato l’espansione della specie. Quindi se la miccia è stata accesa (inconsapevolmente) dall’uomo 60 anni fa, il carburante e l’esplosivo è frutto di processi di portata molto superiore e di una forza tale da portare il cinghiale e gli ungulati selvatici, a incrementi esponenziali in tutto il contesto biogeografico Europeo (la nostra luna nella metafora del dito che punta alla luna). Mi spiego meglio: in Italia, a partire dagli anni ‘50, è stata avviata una campagna di introduzione della specie attraverso l’immissione o “lancio” di contingenti di animali importati dall’Europa orientale (Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia) per utilizzi venatori. Nei primi anni 60, a titolo di esempio, in provincia di Siena i cacciatori locali accoglievano con soddisfazione le immissioni di cinghiali effettuate da parte della Provincia nel territorio del Chianti: a quasi sessanta anni di distanza il rapporto tra le popolazioni sempre crescenti di cinghiali e le coltivazioni di viti Chianti Classico DOCG è diventato difficile e impegnativo da gestire, anche da parte dei cacciatori organizzati nelle squadre di caccia al cinghiale. Sarebbe ed è sbagliato però imputare al solo mondo venatorio la responsabilità di queste immissioni: molti apparati dello Stato ed Enti Territoriali (Province e Regioni) hanno avvallato, praticato ed incentivato queste immissioni (come del resto quelle dei cervi, dei mufloni, dei caprioli e dei daini) nella profonda convinzione (allora) che l’introduzione o la reintroduzione degli ungulati nell’Appennino che si spopolava, avrebbe comportato vantaggi per ampi settori del mondo naturale e rurale, oltre che di quello venatorio. Dobbiamo poi considerare che la società e la cultura dell’opinione pubblica negli anni 50 e 60 erano profondamente diverse dalle attuali: siamo nell’immediato dopo guerra ancora profondamente attaccati a una cultura rurale di mezzadria, della caccia nelle Riserve padronali, delle aree protette quasi inesistenti, salvo 2 o 3 Parchi Nazionali (oggi siamo a 24 Parchi Nazionali e decine di aree protette regionali per complessivi 3 milioni di ettari del territorio italiano), degli ungulati selvatici e del lupo ridotti al lumicino, insomma siamo di fronte a un mondo totalmente diverso dall’attuale. Si è accennato sopra alle aree protette e sicuramente l’incremento delle aree protette soprattutto in ampie zone dell’Appennino centro meridionale, ha comportato la creazione di fatto di polmoni di salvaguardia e di riproduzione del cinghiale e di tutti gli altri ungulati selvatici: ecco un altro tassello del nostro puzzle complesso. Contestualmente, dagli anni 50 a oggi, l’agricoltura e la zootecnia progressivamente collassano in Italia e in tutta Europa tanto che la Comunità Europea deve pompare miliardi di Euro per tenere in piedi il mondo agricolo e zootecnico, che ricordiamo è un settore primario fondamentale per l’uomo e per le economie avanzate, e che però la cultura cittadina e l’economia industriale, digitale e infine globale travolgono, relegandole, purtroppo, ad attività di nicchia e marginali, che non reggono più un economia di mercato globalizzato. Il paradosso che si verifica e che si concretizza in 60 anni, quasi come una legge del contrappasso, è che mano a mano che l’agricoltura scompare e l’Italia diviene sempre più industrializzata e opulenta, il bosco (la selva oscura di Dante) avanza inesorabile al ritmo di 110 mila ettari l’anno nel solo territorio Italiano e alla stupefacente portata di 700 mila ettari l’anno in Europa (Fonte dati Eurostat e Inventario Forestale Italiano). Più l’Europa si industrializza e si civilizza e più la Natura prende il sopravvento, sospinta anche dal global warming o riscaldamento globale (elemento importantissimo nella nostra vicenda e che potremmo definire la faccia nascosta della nostra luna) che spinge le foreste Europee di querce, di faggi e di castagni, ad espandersi, a produrre più frutti e con più frequenza (maggior frequenza delle annate di pasciona). Se pensiamo che un ettaro di querceto all’anno produce l’equivalente di 14 quintali di unità foraggere, virtualmente disponibili per gli ungulati selvatici, capiamo quale sia l’entità e la portata del fenomeno naturale che sta sospingendo le popolazioni di cinghiali e di ungulati selvatici a crescere e riprodursi in Italia e in tutta Europa.
In Italia oggi l’habitat idoneo ad ospitare il cinghiale si estende in maniera quasi illimitata dalla pianura alla montagna, ad esclusione delle aree intensamente coltivate o comunque prive di copertura vegetazionale atta a fornire rifugio alla specie. In generale l’habitat tipicamente vocato alla specie sarebbe rappresentato dai boschi e dalle zone di transizione con le aree aperte (ecotoni) con abbondante vegetazione arbustiva spontanea, ma oggi ogni ambiente che abbia acqua, zone di rifugio, e di alimentazione è di fatto l’habitat vocato per la specie (anche le città come Genova, Torino, Firenze, Roma etc…)
La “plasticità” trofica del cinghiale gli consente di modificare la dieta in funzione dell’offerta di cibo che i vari ambienti sono in grado di fornire. L’entità dell’impatto del cinghiale nei diversi ecosistemi (boschivi e agrari) dipende quindi dall’interazione tra le sue caratteristiche ecologiche e la quantità e la qualità di cibo fornita dai diversi ambienti nel corso dell’anno. Negli anni siccitosi o negli anni in cui è minima la produzione di frutti forestali (soprattutto ghiande, faggiole e castagne), aumenta il consumo delle essenze coltivate e quindi aumentano i danni all’agricoltura. Più cinghiali ci sono, più si spostano e più attraversano le strade con le conseguenza che sappiamo.
Nel panorama Italiano (dove si stima una consistenza di cinghiali superiore al milione di capi), dal punto di vista gestionale e di presenza della specie, si registrano situazioni di forte presenza di cinghiale come in Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Toscana e Umbria in cui l’entità dei danni causati dalla specie alle coltivazioni agricole è tale da comportare importanti conflitti sociali tra agricoltori da un lato e mondo venatorio e aree protette dall’altro: per la Regione Toscana, a titolo di esempio, il carniere ufficiale e denunciato sfiora i 100 mila cinghiali annui e sul complessivo dei danni accertati dal 2000 al 2018 (compresi tra i due e i 4 milioni di euro) il cinghiale è responsabile di una percentuale compresa tra il 67 e il 72%. I fattori che regolano principalmente le densità del cinghiale oggi sono principalmente: 1) le temperatura nel mese di Gennaio che più basse sono e più a lungo si mantengono basse a meno cinghiali consentono di vivere (ma abbiamo visto che con il surriscaldamento climatico in realtà le temperature tendono ad aumentare costantemente); 2) la produttività della vegetazione (ghiande e faggiole in particolare), legato a sua volta alle temperature medie. 3) la presenza di malattie o zoonosi come la recente comparsa e preoccupante espansione della Peste Suina Africana in alcuni Paesi del centro est Europa. Contrariamente a quanto si pensi le densità del cinghiale dipendono poco dalla presenza del lupo, che è si il principale predatore della specie nei Paesi meridionali Europei, ma che agisce più da regolatore e selettore delle popolazioni, piuttosto che da decisivo fattore limitante (esattamente come i leoni non portano a una diminuzione o scomparsa delle zebre).
A scala locale invece l’attività venatoria determina forti variazioni di densità del cinghiale ed è il principale fattore limitante della specie oltre alle basse temperature: tuttavia se consideriamo una scala temporale medio lunga e un areale biogeografico vasto, è improbabile che l’attività venatoria sia la principale spiegazione delle ampie variazioni nell’abbondanza del cinghiale e, non sembra soprattutto essere attività limitante della demografia del cinghiale su vasta scala. Questo perché la vastità, la potenza e la portata dei fattori naturali e sociali che favoriscono l’accrescimento delle specie di ungulati e di cinghiale in primis, sono oltre la nostra capacità di azione a grande scala.
Vedete come ora, che il quadro è composto, è possibile capire come l’incremento demografico del cinghiale è avvenuto, avviene e avverrà per cause naturali e/o indotte dall’uomo, a prescindere dal modello giuridico e politico venatorio degli Stati Europei e dall’approccio gestionale che viene applicato: Madre Natura ora governa la materia e l’uomo ha agito esattamente come quando si tira una palla di neve su un pendio carico di oltre 3 metri di accumulo nevoso. L’uomo innesca sì la valanga ma la valanga è data dai 3 metri di neve accumulati. Ecco quindi perché i cinghiali sono arrivati in autostrada senza patente e hanno causato il drammatico incidente: è una punta di un Icerberg o se vogliamo un sasso della nostra Luna.
Quindi la domanda legittima è: come se ne esce? L’unica via certa e sicura, ma complessa, irta e difficoltosa è la tecnica, non certo l’emotività, l’ideologia, la credenza o la superstizione.
Il vero nodo del problema è il controllo (tecnicamente gestito) costante delle crescenti popolazioni di cinghiali (e di ungulati). Diventa quindi essenziale definire: tempi, modi, luoghi in cui intervenire. Bisogna programmare interventi coordinati a 360° gradi (abbattimenti, catture, prevenzione etc…) e su tutto il territorio, aree protette comprese, non tralasciando ma valorizzando il contributo importante che può e deve essere dato dal mondo venatorio, che ovunque in Europa rappresenta la principale fonte di manodopera gratuita nella gestione del cinghiale e della fauna selvatica in generale.
Bisogna mettere in campo un programma coordinato di interventi e di sostegno economico agricolo e di uso, anche alimentare, del cinghiale e della fauna selvatica di livello Europeo, Misure del PSR, o analoghe a quelle LIFE o per RETE NATURA 2000, che messe in campo tutte insieme provino a contrastare la grande forza che surriscaldamento globale e riforestazione, stanno generando nella crescita delle popolazioni di ungulati selvatici.
Al di là degli errori del passato, che ci sono stati ma non sono più rimediabili (se non tornando indietro nel tempo, cosa per ora impossibile stante la Relatività di Einstein), ci sono alcuni assunti o constrains che se non si comprendono o non si tengono in considerazione non si riesce ad inquadrare il problema della gestione del cinghiale e in generale della gestione faunistica in Italia (compresa quella dei cinghiali sull’autostrada A1).
1) L’ambiente naturale Italiano (la Natura d’Italia) è legato direttamente o indirettamente alle attività umane che storicamente (vogliamo partire dai Romani ? Dal Medio Evo ?) hanno modellato il paesaggio, i boschi e le foreste e la fauna ivi compresa che vi proliferava e vi prolifera. Non esistono in Italia Ecosistemi di grandezza di portata e con dinamiche naturali paragonabili a Yellowstone o il Serengeti etc….e anche per questi ecosistemi a volte l’intervento dell’uomo è stato determinante (p. es. introduzione del Lupo nello Yellowstone, cacciata del popolo Masai fuori dal Serengeti). Per cui, le dinamiche ecologiche che si evidenziano bene nello Yellowstone si evidenziano con più difficoltà o per niente in Regione Toscana, perché le attività umane interferiscono molto di più, in più direzioni e più velocemente.
2) Ergo: qualsiasi evoluzione di un ecosistema Italiano non può essere pensata o studiata o gestita, senza tenere conto delle variabili di origine antropica, compresi i danni economici che la fauna procura (agricoltura, silvicoltura, zootecnia e incidenti stradali appunto), gli impatti sociali, culturali etc… etc….
3) La perdita di attività agricole o zootecniche di origine e conduzione antropiche legate all’utilizzo del territorio sono per il nostro Paese, una grave perdita in termini di biodiversità (spariscono gli agro ecosistemi e gli ecotoni) oltreché una perdita di attività economiche e di patrimoni culturali e di razze animali domestiche “antiche”.
4) La gestione faunistica dei vertebrati (tutti e cinghiale in primis) e dei loro habitat sarà sempre di più necessaria nel nostro Paese e la gestione implica, come si apprende nelle lezioni basilari dei Corsi Universitari, introduzioni, rimozioni selettive (fucile, catture, traslocazioni, trappole gestite da specialisti), monitoraggi, abbattimenti, conservazione, protezione etc…etc…. ossia monitoraggio, manipolazione, a volte anche invasiva, e soprattutto gestione adattativa, anno dopo anno, in cui si verificano i risultati e si calibrano gli interventi dell’anno successivo in base ai risultati.
La sfida per le generazioni future e per i Governi che verranno, è quella di far entrare in un ciclo produttivo virtuoso per tutti i cittadini la fauna selvatica (cinghiale in primis) come bene, risorsa comune (caccia, controllo selettivo, ecoturismo, filiera della carne selvatica, birdwatching, etc….) fauna selvatica che non può e non deve pesare su singole categorie di cittadini o su singoli settori produttivi o sugli automobilisti che transitano nelle strade. Se non comprendiamo questo e non agiamo verso e con la gestione adattativa (compreso il contrasto alle malattie come la peste Suina), non facciamo altro che incrementare, relativamente alla fauna selvatica, un’attività di origine antropica più subdola e poco verificabile: il bracconaggio diffuso e l’anarchia gestionale. Con buona pace di una ipocrisia ambientalista diffusa “pet oriented” che permea molti settori dell’opinione pubblica e del Parlamento del nostro Paese.
Ricordiamoci infatti che la Fauna selvatica e il cinghiale non sono animali da compagnia o di affezione: sono un patrimonio naturale indisponibile dello Stato che va conservato, protetto ma soprattutto gestito affinché la presenza della fauna non si ritorca contro l’uomo stesso.
Come vedete, se siete arrivati in fondo alla lettura, era più semplice rispondere: è colpa dei cacciatori.”
Dott. Federico Morimando
Dottore in Scienze naturali e dottore di ricerca in Zoologia