Avventure alla foce del Cecina - parte II
- Pubblicato in Migratoria e anatidi
La mattina dell’apertura vedeva i cacciatori, me compreso, occupare le parate già fatte e presidiate nei giorni precedenti. Un’ordinanza, chiamiamola salva turismo, teneva lontani i cacciatori dalle zone più vicine al mare, durante le preaperture e questo garantiva territori vergini, in cui, le piccole africane, ancora, non avevano assaggiato il fucile. Certo ormai non ce n’erano così tante, come agli inizi del mese, ma qualcuna comunque resisteva ed arrivava a giorno fatto planando sui campi di girasoli. Quando il sole si alzava, però, si assisteva a uno spettacolo della natura, quello che noi stavamo aspettando e per cui avevamo deciso di fare l’apertura in quel di Livorno. I passerotti cominciavano a svegliarsi e dall’abitato di Cecina, sorvolando il vecchio zuccherificio, venivano diretti verso di noi per oltrepassare la Cecina e disperdersi nei campi coltivati. Ricordo che, oltre il fiume, in direzione del viale ornato di pini che collega la marina al centro del paese vecchio, come arrivava il giorno si cominciava a sentire un interminabile ciliaccio che precedeva l’alzarsi di ondate di passeri che scurivano il cielo per oltre un’ora.
Noi ci appostavamo nei canneti lungo la riva del fiume e, per un’ora, l’aria risuonava di scariche ininterrotte, che non sembravano, però intaccare minimamente la consistenza delle popolazioni. La sera oltretutto, chi ne aveva ancora voglia, poteva attenderle sulla via del ritorno, che era la stessa, solo ovviamente fatta al contrario. Erano i tempi in cui i cacciatori compravano le cartucce caricate con borre bior e 30gr di piombo n° 10-11 sfuse, a buste o sacchi da 250. Tempi in cui, forse ci siamo scavati la fossa da soli, dando per scontato che la selvaggina fosse inesauribile e senza dimostrare quella volontà conservazionistica che con tanta difficoltà adesso sta finalmente attecchendo. Adesso lo capisco, ma comprendete un povero migratorista diciottenne che, con un porto d’armi che ancora puzzava d’inchiostro, si vedeva passare sopra nuvole di uccelletti che, impunemente, sorvolavano la parata a una ventina di metri d’altezza, richiamati dai loro consimili in gabbia e dal ciliaccio. Quest’ultimo era un utile richiamo meccanico che univa un mazzo di pezzi di camera d’aria con dei fischi di ottone e che doveva essere agitato in continuazione. Questo ingrato compito, toccava in genere al più piccolo che, di norma, non era ancora dotato di porto d’armi, in questo caso mio fratello. Durante il giorno, o si rimaneva con le gabbie nei dintorni di qualche coltura frequentata dai passeri, i pomodori erano micidiali, oppure ci si dava alla caccia alla borrita. Le ultime quaglie e le allodole “posticce” in genere se ne andavano ben prima di farci arrivare a tiro, ma una preda sudata dava sicuramente maggiori soddisfazioni. Luogo di sosta preferito durante queste scampagnate era il Pinone, un mastodontico pino domestico che ancora troneggia nei campi dietro La Cinquantina. Questo albero isolato, in mezzo a una distesa infinita di stoppie, era un attrattivo irresistibile per i piccoli uccelli e, passere reali e mattugie non facevano eccezione, consentendo di fare qualche bel tiro durante le ore più calde. Insomma, pensate ad un’intera economia venatoria supportata da questo piccolo uccello, che ha fatto divertire migliaia di appassionati per anni e anni. Adesso tutto questo non esiste più, il passero non è più cacciabile e con ragione. Nel giro di pochi anni è quasi sparito, i branchi che oscuravano il cielo sono ridotti a pochi esemplari sparuti radunati nei parchi delle città e attorno alle coloniche e ai pollai. Certo non è colpa della caccia, ma dell’umanità miope, che con uno schiocco di dita può sterminare una specie senza nemmeno rendersene conto. Penso che questo dovrebbe dare molto da pensare a chi si occupa di pianificare il nostro futuro. Concludo questo breve viaggio nella mia infanzia, che si conclude con il migliore augurio di in bocca al lupo per l’inizio quest’annata e con una raccomandazione: inutile vivere di ricordi, lottiamo, invece, per migliorare il presente che è l’unico che abbiamo.
Ma che fine hanno fatto i passerotti?
Nessuno lo sa con certezza, si sono fatte molte ipotesi a riguardo e qualche tempo fa l’Università di Pisa, in collaborazione con Birdlife e la Provincia della stessa città realizzarono un interessante convegno intitolato: Passere in crisi ?
Da “pest” a “species of conservation concern”: biologia, problematiche e conservazione dei passeri.
Durante il convegno furono analizzate le diverse cause che potevano aver portato una specie che, fino alla metà degli anni 90 era abbondantissima, quasi infestante, sull’orlo della sparizione. Le principali cause di questo tracollo, che ha colpito, non solo l’Italia con la sua sottospecie endemica Passer Italiae ma anche molta zone del’’Europa continentale, dove invece è presente la sottospecie Europea. Dal 1979 al 1995 la Passera Europea in Gran Bretagna è diminuita del 60%. Questo declino trova le principali cause nella riduzione degli incolti e delle erbe infestanti, nel cambiamento dei tempi di semina da primaverili ad autunnali, con conseguente perdita della permanenza in campo delle stoppie durante l’inverno e nella diminuzione delle piccole fattorie “familiari”. Oltre a questo deve aggiungersi l’aumento della monocoltura con il suo carico di erbicidi e pesticidi che avvelenano gli adulti e riducono gli insetti di cui si nutrono i pulcini nei primi giorni di vita. Altre cause sono la ristrutturazione degli edifici con eliminazione dei siti di nidificazione, l’aumento della predazione da parte di animali nocivi se presenti in quantità eccessive come gatti, gabbiani, cornacchie, gazze, rapaci e, infine, l’inquinamento come rivelano le alte densità di metalli pesanti e benzene (contenuto nella benzina verde) presenti negli adulti e soprattutto nei giovani. In generale i dati di monitoraggio effettuati tra il 2000 e il 2005 evidenziano un calo della popolazione di Passera d’Italia di circa il 30%. Solo recentemente alcune popolazioni, come quella dell’Emilia Romagna hanno dato timidi, ma certo non sufficienti, segnali di ripresa.