Non tutti i camosci finiscono... in salmì
- Scritto da Alessandro Bassignana
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Cacciando e Mangiando: non tutti i camosci finiscono... in salmì!
“Bisognerà partire prestissimo, per essere su prima che faccia chiaro”
“Va bene Meo, allora ci troviamo al solito posto per le cinque”.
Detto questo ci salutammo per ritornare alle nostre cose.
Il mattino successivo, entrambi puntualissimi, c’incontrammo all’unico bar già aperto in quella parte di valle: lui e i figli per fare colazione, io per l’ennesimo caffè.
Dopo dieci minuti eravamo nuovamente in auto, risalendo gli stretti tornanti che portavano in cima al colle.
Parcheggiammo il suo fuoristrada sul ciglio della strada asfaltata, spostando tutta l’attrezzatura sulla mia, più piccola ed agile; poi proseguimmo su uno stretto sterrato.
In realtà lì di terra se ne vedeva ben poca, coperta com’era dalla prima neve che aveva raggiunto lo spessore d’una spanna.
Toccò mollare anche il mio automezzo e, caricati in spalle zaini e carabina, c’incamminammo.
Era notte piena, ma non servivano pile o torce a illuminare il cammino, bastandoci quel poco di chiarore lunare che superava il velo delle nuvole e riverberava sul candido manto nevoso.
Saremmo giunti nella zona di caccia prescelta dopo circa un’ora ma l’esperienza suggeriva prudenza dato che pure lì era possibile avvistare qualche animale.
A me era toccata la fascetta per un camoscio maschio e le poche uscite fatte prima erano state infruttuose; ora che s’avvicinava il completamento del piano d’abbattimento non bisognava più sbagliare e quella poteva essere l’ultima occasione.
I miei compagni, Meo e i giovanissimi Andrea e Davide, dovevano cacciare il capriolo ma avevano accettato d’accompagnarmi alla ricerca del mio becco; al loro capo ci avremmo pensato nel pomeriggio, e poi c’era sempre la possibilità d’incontrarlo salendo.
Procedevamo silenziosi perché la neve era ancora soffice, e là dov’era stata fusa dal sole non era più ghiacciata, complici le temperature notturne ancora sopra lo zero.
Davide camminava spedito, binocolando l’ampio vallone che s’apriva sotto di noi.
L’alba cominciò a bucare il velo delle nuvole, e i contorni ad apparire definiti.
Una volpe che rientrava da una caccia notturna attirò la sua attenzione facendolo fermare. Il telemetro testimoniò che era a circa 200 metri, perfettamente a tiro non fosse che quel giorno non era cacciabile. Avanzammo.
Non avevamo fatto che altri duecento metri e il ragazzo si fermò nuovamente.
“Un’altra volpe!” esclamò, indicando con il braccio teso un gruppetto di baite abbandonate che erano più in basso.
Cercai di vederlo ma senza riuscirci. Andò meglio a Meo e Andrea, che subito inquadrarono... tre figure!
“Sono lupi Davide, non vedi che razza di codoni hanno!”
L’apparizione fugace delle tre belve caricò d’adrenalina i nostri corpi, facendoci apprezzare ancora più la magnificenza dell’ambiente in cui ci muovevamo circospetti e rispettosi.
I lupi stavano correndo sulla stradina che conduceva al gruppetto di baite, scendendo verso il fondovalle ed evocarono nella nostra mente il ricordo di quelle fiabe e leggende antiche che un tempo, prima di “tivù” e “playstation”, si raccontavano ai bimbi prima di metterli a letto.
Eravamo a milleseicento metri d’altitudine e dovevamo ancora salire d’un po’ per entrare nel regno dei camosci.
Due voli di cotorni, resi prudentissimi da un terreno su cui non avevano difesa mimetica, s’alzarono a breve distanza l’uno dall’altro intonando il loro canto metallico.
Praterie alpine e sfasciumi di granito erano screziati di bianco e rendevano meno ostile il paesaggio, facendocelo apparire quasi come una cartolina natalizia.
Abbandonammo la strada principale per proseguire su una mulattiera che tagliava il fianco del monte, parallela alla cresta.
La neve aumentò di spessore e il passo si fece più greve, più faticoso.
Adesso bisognava aumentare il livello d’attenzione perché stavamo entrando nel mondo... delle creature alpine.
Le nostre sagome scure spiccavano evidenti sul bianco della neve e rallentammo la marcia per evitare d’essere scoperti dai selvatici.
Eravamo all’inizio della stagione degli amori e i branchi si stavano ricongiungendo; i maschi, solitamente isolati, s’avvicinavano a femmine, giovani e piccoli dell’anno, mossi dai loro potenti impulsi amorosi; questo li rendeva spavaldi e meno attenti a potenziali nemici ma c’erano sempre gli altri elementi del branco pronti a lanciare qualche fischio d’allarm.
S’era ormai fatto chiaro da un po’, e il cielo appariva screziato da sciami di nubi che nulla di buono lasciavano presagire.
Andrea inquadrò un bel gruppetto d’animali, nel quale c’erano anche alcuni maschi. Erano avanti a noi e sembravano aver avvertito la nostra presenza.
Il tempo di estrarre il lungo dallo zaino che Davide confermò la distanza: quattrocento metri, troppo per azzardare il tiro.
Dovevamo procedere per avvicinarli ma eravamo allo scoperto, certi che le femmine del branco avrebbero lanciato l’allarme invitando il gruppo alla fuga. E avvenne proprio così.
Ma erano appena le undici, e restavano ancora alcune ore per trovare il mio maschio.
Il cielo, mutevole come l’umore di una donna, scherzava con noi, alternando squarci di sereno a momenti nei quali appariva plumbeo e minaccioso.
Camminavamo a mezza costa, calpestando la neve d’una settimana prima in cui s’affondava sin quasi al ginocchio.
Stavamo avvicinando il luogo dove avevamo deciso di concludere le nostre ricerche:
una conca sormontata da ripide pareti e con un nome che è …tutto un programma!
L’Infernet, così si chiama quell’angolo di aspra montagna ove trovano rifugio i vecchi becchi, dove corrono ancora gli stambecchi e l’aquila pittura i suoi cerchi regali nell’azzurro cobalto del cielo estivo; un posto che invita a prudenza, a riflessione e insieme alla meditazione.
E quelli sono proprio i sentimenti e le sensazioni che vibrano lungo i corpi dei camosciari quando salgono su, alla ricerca di quelle formidabili capre alpine.
Avevamo proceduto prendendo gradualmente quota, e sempre paralleli alla cresta troppo pericolosa con quella prima neve; ad un certo punto c’inerpicammo lungo quello che era il sentiero, normalmente percorso dagli escursionisti e sbucammo su un anfiteatro naturale con ripide pareti a far da arco scenico.
Un fischio acutissimo tagliò l’aria, gelandoci il sangue nelle vene. Ci abbassammo subito come a nasconderci, volgendo la testa verso la parte della cresta a noi più vicina.
Lì, tra le rocce lisce e brune, e praterie coperte di neve, alcuni maschi si fronteggiavano nei loro rituali amorosi. Anche loro ci avevano visto ma sembravano poco interessati a noi.
Controllammo la distanza e capimmo subito il perché.
Avvicinarli avrebbe significato risalire il monte, allo scoperto e con il rischio di vanificare il tutto.
Mentre ci stavamo ragionando sopra Davide s’accorse d’un altro camoscio, proprio in faccia a noi ma ad una distanza decisamente più ragionevole.
La misurò e confermò la prima impressione: “ E’a tiro! ” disse, chiedendo anche al fratello di controllarne il sesso con “il lungo”, un potente cannocchiale fornito di molti ingrandimenti.
“Femmina” fu la secca risposta, e subito precisò “ probabilmente una vecchia femmina isolata”.
La delusione si dipinse sul mio volto ma subito Davide s’agitò nuovamente.
Poco più in là, infatti, aveva visto un’altra bestia e questa pareva davvero essere un grosso maschio.
Nella concitazione del momento però c’eravamo mossi parecchio e il becco ci aveva visti, cominciando ad allontanarsi.
La distanza era ancora inferiore ai 250 metri e dunque non bisognava perdere altro tempo.
Lo zaino era già stato posizionato su una roccia a fianco del sentiero e vi poggiai su il mio leggero basculante. Cercai d’inquadrare l’animale nell’ottica ma ero nervoso e faticai non poco a posarvi su la croce. Trassi un profondo respiro e, armato lo stecher, tirai il grilletto.
La botta squassò il silenzio, quasi spettrale, che s’era fatto intorno a noi ma la palla impattò alta.
Il becco, dopo un attimo d’incertezza si diede alla fuga, tagliando in diagonale a scendere.
Da dov’ero sistemato non l’avevo più a tiro e così, velocemente, misi un’altra cartuccia nel kipplauf e mi girai, sedendomi sulla neve con i gomiti appoggiati sulle ginocchia.
Il camoscio rallentò un attimo e la palla sibilò nuovamente, questa volta giungendo a segno.
L’animale fece qualche passo per poi rotolare verso il basso; scivolò sulla neve e poi cadde da un salto d’alcuni metri continuando la sua discesa verso il fondo d’un ripido canale.
Come sempre accade alla soddisfazione per il completamento d’una bella azione di caccia, s’accompagnava l’amarezza per aver spento la vita d’un così nobile animale; questa volta poi c’era l’incognita d’un recupero che s’annunciò subito molto problematico.
Ma non avevo fatto i conti con quelle due “giovani bestie da montagna” che erano i miei accompagnatori e così, prima che io e Meo realizzassimo, i due ragazzi partirono per il recupero.
Scendendo con l’agilità pure loro dei camosci, in meno di mezz’ora furono sul becco.
Per radio c’informarono che quello non era un semplice maschio ma un maschio…super, con un corna altissime e forti, quasi fossero una corona che lo rendevano autentico Re di quelle vette.
Quando tornarono, per nulla stremati nonostante lo sforzo profuso, io e Meo restammo a bocca aperta: davanti avevamo uno dei più bei trofei che si possono trovare nelle nostre valli, una camoscio da medaglia: argento abbondante, quasi oro. Gli rendemmo gli onori e dopo le foto di rito iniziammo la discesa verso valle.
Tre ore più tardi eravamo alla macchina e iniziava…il dopo: verifica presso il centro di controllo, misurazioni e poi tutti gli altri onori, quelli gastronomici, della tavola.
Un maschio nel pieno della stagione amorosa ha le carni intrise d’un fortissimo sapore di selvatico, frutto di quelle tempeste ormonali che lo rendono aggressivo e ….quasi pazzo di passione erotica.
Per consumarlo bisogna che prima la carne venga frollata e marinata a lungo, mettendo in conto che ciò ancora possa non bastare.
Lo spellammo e vidi che la palla l’aveva trapassato senza grossi danni, salvo un ematoma che aveva scurito il muscolo d’una spalla.
L’idea mi venne navigando sulla rete e così decisi che, questa volta, il mio camoscio non sarebbe... finito in salmì !
E fu nuovamente Meo a darmi una mano, anzi il numero di Mauro un amico che mi “regalò” la sua ricetta per fare la “Mocetta”.
La mocetta è un salume simile alla bresaola, tipico delle nostre magnifiche Alpi Piemontesi e Valdostane dove si produce utilizzando carni magre ( prevalentemente muscolo o coscia) di bovino, suino, ovino e infine di selvaggina, e tra queste il camoscio è la più prelibata.
Esistono diverse preparazioni e varianti, a seconda delle zone di produzione (Valle d’Aosta, Canavese, Val Sesia, Val d’Ossola), che si differenziano per l’utilizzo di alcuni ingredienti, di operazioni di marinatura con vino o spezie, di tempi differenti di asciugatura e stagionatura
.
Ma vediamo un po’ come questa prelibatezza possa trovare morte degna sulle nostre tavole.
Abbinamento: da gustare al naturale con pane di segale e verdure, si abbina a vini bianchi morbidi e di buona struttura, o a rossi non troppo corposi
In cucina: la mocetta di camoscio si consuma al naturale tagliata in fette sottili e accompagnata semplicemente con pane di segale e verdure, oppure miele.
Mauro, grande cacciatore delle Alpi Torinesi, utilizza una ricetta personale, traslata dalle valli da cui proviene la sua famiglia, e sono anni che fa “mocette” di ottima qualità; tutto questo non solo con la selvaggina che caccia con profitto, ma pure con tagli magri di maiale (principalmente la lonza) o di bovino.
E così ho annotato gli ingredienti, le modalità e pure qualche suo consiglio che ora vi propongo.
Mocetta di Camoscio alla maniera di Mauro
Tagliare la carne in pezzi da mezzo chilo, massimo un chilo, utilizzando la coscia o anche il filetto.
Per 10 chili di carne preparare un impasto con cui “impanare” i pezzi utilizzando:
280/290 grammi di sale grosso (meglio se integrale) macinato, sminuzzato,
la punta d’un cucchiaio di salnitro (nitrato di potassio che si compra in farmacia e viene usato per la conservazione dei salumi),
un cucchiaio di pepe nero pure lui pestato,
una noce moscata grattugiata,
4/5 chiodi di garofano.
Dopo aver “impanato” i pezzi, posizionarli in una bacinella (di plastica va bene) dove resteranno un
paio di settimane e verranno girati ogni 2/3 giorni.
Mettere la bacinella in luogo fresco e asciutto.
La salatura favorisce l’espulsione dell’acqua contenuta dalla carne che resta sul fondo della bacinella e va buttata via ( e con questo s’attenua anche l’odore forte di selvatico).
Trascorse le 2 settimane appendere i pezzi di mocetta, con un gancio da macellaio o semplicemente legandola con un po’ di spago, sempre in luogo fresco ed asciutto dove verranno lasciati asciugare e stagionare per un periodo variabile tra i 2 e i 3 mesi.
Qualora sulla carne si formasse un leggero velo di muffa non bisogna preoccuparsi, significa solo che la mocetta sta asciugando correttamente; al più rimuoverla strofinandola con uno straccetto inumidito d’aceto o con un po’ di carta tipo Scottex.
La durata della stagionatura dipende da molte condizioni legate all’ambiente in cui viene fatta riposare, e determina il grado di compattezza e sapore della mocetta.
Quando ritenete possa andare bene, toglietela e portatela in tavola, ricordandovi d’affettarla molto fine, e ….buon appetito !!!
Alessandro Bassignana