“L’Africa mi toccò l’animo già durante il volo: di lassù pareva un antico letto d’umanità.”
(Saul Bellow premio nobel per la letteratura).
Chiunque metta piede in Africa non può far altro che cedere davanti alla sua bellezza ed innamorarsene. L'amore di cui vi parlo è vero e pulito. Un sentimento che non viene plasmato dal tempo o dalla paura, che spinge l'uomo a fare sacrifici enormi per tornare più volte nel continente nero. Il mal d'Africa non è un'invenzione, è una reale malattia dell'anima.
È l'inizio degli anni Trenta, esattamente il 1933, quando Ernest Hemingway e la sua consorte si trovano in safari fra le verdi colline d'Africa. Puntualmente, 77 anni più tardi, il sogno del mio secondo safari si era realizzato ritrovando davanti ai miei occhi le stesse alture. Devo dire che non ero affatto convinto di riuscire a mettere piede a Mbuga: il viaggio infatti era stato a dir poco problematico.
La sera del 2 Ottobre ricevetti da Stefano (amico nonché nostro p.h. per l'occasione) uno strano messaggio: “ siete già in aeroporto?”. Appena lo lessi rimasi un po' perplesso; fra me e me pensai che si era confuso, la partenza per la Tanzania era per le 00.30 dell'indomani. Gli risposi scherzosamente dicendogli che, anche se sentiva la nostra mancanza, avrebbe dovuto aspettare ancora un giorno per poterci a rivedere. Immediatamente il cellulare mi vibrò di nuovo : “ rimbambiti se il volo è a mezzanotte e mezza del 3 voi dovete essere a Fiumicino il 2 sera !” Aveva ragione! Alle 21.30 mi trovavo in macchina con degli amici lungo il litorale romano, papà era comodamente in pigiama davanti la televisione e Kikko a cena con la sua famiglia dall'altra parte di Roma.
Nell'arco di 5 minuti, dopo un frenetico giro di telefonate, ci lanciammo in una scellerata corsa contro il tempo. Le valigie non erano ancora chiuse, ed i fucili stavano nell'armeria di Francesco. La dea bendata sembrava ci avesse voltato le spalle.
Ci ritrovammo al check-in dell'Ethiopian Airlines appena un'ora prima della chiusura del gate, giusto in tempo per svolgere le pratiche d'imbarco delle armi. Salito sull'aereo la tensione si era ormai allentata, le mie preghiere sembravano fossero state ascoltate, finalmente.
Fatto lo scalo ad Addis Abeba, eccoci, dopo tante peripezie, a Dar Es Salaam dove Sadick, membro della De Amicis Safaris l.t.d., era lì per aspettarci, pronto ad occuparsi dello sdoganamento dei fucili e del nostro trasporto fino al meraviglioso Hotel Mediterraneo dove avremmo dovuto trascorrere la notte prima di immergerci nel bush dell'area di caccia MOA 1.
Stefano ha iniziò la sua vita di professionista seguendo il padre che, abbandonata la ditta di famiglia in Italia più di 50 anni fa, si è dedicato alla caccia in Africa. Dopo aver girovagato per il Kenya, l'Angola ed il Sudan, appese il cappello al chiodo in Tanzania, la terra del leone, casa del Kilimanjaro, del cratere Ngorongoro, del Serengeti e del Selous (la più grande risorsa di Caccia al mondo). La compagnia ormai passata nelle mani del Nerone d'oltre Mediterraneo, nacque all'inizio dei primi anni novanta, organizzando safari di caccia in Tanzania ma, qualche anno più tardi, ha iniziato ad operare anche in Botswana ed in Sud Africa. Attualmente, per chi volesse, offre anche l'opzione dei safari fotografici.
Alla fine di un'ora di volo il carrello del piccolo Cesna toccò il suolo del distretto di UlangaUlanga nella regione di Morongoro, punto d'incontro con il nostro giovane p.h. . Inutile dire che non potè trattenersi dal prenderci in giro pesantemente per la nostra tragicomica partenza.
La pista che conduce al campo taglia il villaggio di Mbuga, luogo in cui sostammo per comprare qualche cassa d'acqua e delle’’pippi” da dare ai bambini.
Ogni qualvolta che vi sentirete tristi, afflitti, chiedetevi che cosa sia per voi la felicità. Potrebbe essere anche uno standard di vita, certo, ma dopo aver visto le condizioni in cui quelle creature trascorrono la propria esistenza, ho iniziato a credere che la vera felicità sia quell'emozione nascosta ovunque, anche nei gesti più piccoli come il dare e ricevere una caramella.
La prima giornata di caccia trascorse alla ricerca di un mastodontico bufalo, ma al calar del sole, al termine di in paio di tracciate, il nostro carniere era ancora vuoto. L'alba del secondo giorno sembrava non voler arrivare mai, quasi come fosse stata imprigionata dall’assordante notte africana. Non c’è modo migliore per godere di quei suoni e di quella magia intrisa nel continente nero se non stando in un campo tendato immerso nella Savana. Le tende della De Amicis Safaris si levano all'ombra degli alberi di sufi, lungo le rive del Luhombero, un posto di rara bellezza pieno di colori e di vita.
Erano circa le 10 quando, dopo alcune ore di marcia sotto al sole cocente, Kikko avvistò per primo i bufali in una piana a circa 200 m da noi. Iniziammo l'ultima fase dell'avvicinamento con il cuore che ormai batteva all'impazzata. La strategia era di aggirarli controvento per trovarseli cosi davanti. Il piano ha avuto successo ed i bufali incolonnati placidamente iniziarono a sfilare tra gli alberi a circa 40 m dalla bocca del 378 wby magnum di mio padre. Stefano, appena individuato un maschio con un trofeo con delle lunghe punte ricurve verso l'indietro, diede il via libera a papà che, senza perdere tempo, fece fuoco; 20 m di corsa ed il gigante nero finì giù. Il suo primo syncerus caffer era morto, colpito nel “10” con una barnes triple x da xxx grani.
Una mattina, durante un lungo giro intorno al campo, Isaia, uno dei più abili tracciatori di tutta l'Africa, indicò un albero alla nostra sinistra, proprio all'interno del fitto bush, sotto al quale c'era fermo immobile un facocero. Imbracciai alla svelta il 378 e sparai senza però usare nessun appoggio... il colpo andò a vuoto. Ripartimmo e dopo circa mezzo chilometro ne incontrammo un altro. La scena fu più o meno la stessa. Tirai su nuovamente il fucile ma sta volta lo sistemai bene sullo zaino e tirai il grilletto. La palla colpì il vecchio maschio che galoppò verso la boscaglia. Con Isaia ed un altro tracker iniziammo a seguire il sangue. Dopo altre 4 fucilate, tutte andate a segno, il pesante suino con due buone difese stramazzò a terra.
È il quarto giorno quando, mentre si andava dietro alle impronte di un leopardo appena fuori dal campo, trovammo le tracce di tre bufali. Iniziò così la mia prima caccia al tanto ambito dagga boy. Dopo 3 ore di camminata eccoli apparire sul crinale di una collina intenti a riposarsi all'ombra di alcuni alberi. Con Stefano ci avviciniamo fino ad una cinquantina di metri dall'unico maschio del gruppo dal boss veramente imponente. Mentre tirai il grilletto il bovino si alzò e la palla finì per impattargli sul collo facendolo rovesciare a terra per lo shock. Ricaricai e sparai di nuovo con l'arma sempre appoggiata al tre piedi ma la palla non andò a segno. Ci rimettemmo subito sulle sue tracce, più passò il tempo e più l'ansia veniva rimpiazzata dalla tristezza. Dopo 2 ore decidemmo di fermarsi e dargli una mezz'ora di vantaggio per farlo tranquillizzare, scelta che poi si è rivelò esatta. Nel primo pomeriggio vedemmo le orme entrare in un canneto, fitto quanto basta per temere una carica improvvisa. Fatto qualche centinaio di metri il professionista alzò di colpo la canna del suo 460 wby lasciando partire la cannonata. Il bufalo stramazzò a terra. Nessuno oltre lui ed Isaia era riuscito a vedere la sagoma dell'animale a pochi metri da noi. Mi fece immediatamente sparare qualche altra cartuccia sulle zone vitali per assicurarsi che il bufalo fosse definitivamente morto. Il trofeo non era larghissimo, circa 36 inches, ma era pur sempre il mio primo membro del big five e l'emozione è ancora oggi , ogni volta che ci ripenso, indescrivibile.
Arrivò senza pietà l'alba del settimo giorno e Kikko non era riuscito ancora ad incarnierare il suo bufalo. Dopo ore di camminata agganciammo una mandria composta da un centinaio di esemplari, qualcuno dotato anche di un buon trofeo, e, visto il poco tempo a nostra disposizione, tentammo in tutti i modi di portaci il più vicino possibile per tentare un ultimo tiro. La palla uscì dal freno di bocca del vecchio weatherby e impattò contro un vecchio maschio fermo a 200m dalla nostra posizione che, accusata la botta, scattò trascinando con sé il branco dirigendosi proprio verso di noi quasi a volerci caricare. Fortunatamente, giunti a meno di 30 passi, l'imponente ammasso di bovini si aprì a forbice passandoci ai lati facendo tremare la terra sotto ai nostri piedi. Seguire l'animale ferito si rivelò piuttosto difficoltoso in quanto il sangue sul terreno era ben poco ed il branco tendeva spesso a separarsi per poi riunirsi confondendo cosi le tracce. Verso le 17 decidemmo di tornare verso la macchina, Stefano sarebbe tornato a cercare il bufalo ferito l'indomani, sicuro di trovarlo morto. Fortunatamente andò così.
Il safari si concluse poi in bellezza con l'abbattimento di un maschio di zebra, alla luce “dell'ora magica”, quella luce calda di un classico tramonto africano, sprigionata dal sole ormai quasi nascosto sotto la linea dell'orizzonte, che ricorda agli uomini che è arrivato il momento di ritirarsi perché la savana torna ad essere i regno delle belve feroci.
Dopo sette giorni immersi nel bush anche noi ci ritirammo nella nostra cara Italia.