SCRIVENDO & CACCIANDO: IL RACCONTO VINCITORE L'EDIZIONE 2014
- Scritto da Alessandro Bassignana
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Abbiamo deciso di pubblicare in versione integrale i racconti che hanno vinto il nostro concorso di letteratura venatoria "Scrivendo & Cacciando", organizzato dal portale Cacciando.com e realizzato con il patrocinio di Fiera di Vicenza Spa.
"Scrivendo & Cacciando" è giunto alla terza edizione, e continuerà il prossimo anno, sempre in collaborazione con Fiera di Vicenza e HIT SHOW.
Il primo è "La fine del sentiero", con cui Claudio Zanini s'aggiudicò l'edizione del 2014, che coincise con l'ultima edizione dell'Hunting Show, poi sostituito da HIT SHOW, portandosi a casa una prestigiosa arma della storica azienda Bernardelli.
Questo ed altri racconti premiati sono stati pubblicati sul libro "Leggendo & Cacciando 2014", autentica perla che non può mancare nella libreria di ogni appassionato.
Seguiranno "La tigre che visse due volte", di Vincenzo Decarolis (edizione 2015), e "Tre passi", di Ivan Bettina Piazza (edizione 2016).
LA FINE DEL SENTIERO
«Ti ricordi?» disse l’uomo.
Già. Tutto era cominciato con un frullo silenzioso, un battere d’ali coperto dallo stormire delle fronde, un’ombra tra le ombre, ma ben visibile perché gli occhi guardavano proprio là, angolo sacro di bosco ove generazioni di beccacce avevano pasteggiato nei mille autunni già andati, terra morbidissima su cui le faggiole cadevano senza fare rumore. Era stato un attimo o poco più, giusto il tempo di arrivarci con la testa, mentre il cuore già l’aveva fatto proprio. E così l’istinto di Caleb: lo scampanellio frenetico, le quattro zampe che pestano l’angolo di bosco e poi lo sopravanzano. Il richiamo, lui che torna ma che si ferma a qualche metro, come a chiedere: che cosa aspetti? Ed io che glielo spiego: no, non così, quella mica si fa avvicinare in questa maniera. Difficile che intenda le parole, forse il tono, meglio qualche carezza: sento la voglia di caccia vibrare sotto a pelo e pelle. Per un istante m’illudo di domarla. Sarebbe la prima volta. Prima autentica volta: finora al momento del dunque la foga giovanile ha oscurato l’educazione, confuso qualsiasi tentativo di ragionamento canino. Forse era appena arrivata, gli spiego, alle prime luci dell’alba. Soltanto il tempo di posare le zampe in terra e magari di piantare il becco e noi siamo già qua a rovinarle la giornata. E poi c’è anche il vento, che tiene sollevato e mosso il mondo. Lui mi guarda da sotto in su, e ancora: che cosa aspettiamo? Va bene, va bene: proviamo a farla nostra. Dentro per il bosco, tenendomi nel mezzo: lo lascio girare tutto intorno, libero di fare i suoi errori, mal che vada la vedrò saltar via di nuovo lunga. E infatti: alcuni relitti antichi di rocce affioranti verdi muscose, un tronco marcio caduto per traverso, Caleb che per un attimo mi dà l’impressione di rallentare l’andatura e lei, la beccaccia, che è già per aria e che si tira dietro il mio sguardo tra i tronchi ancora in piedi e poi sparisce. Non la alzo nemmeno, la doppietta. Mi limito a richiamare Caleb, cui odore, frullo e forma di beccaccia han di nuovo dato alla testa. Pazienza, mi dico, e gli dico, ci vuole pazienza. Ancora sento la pulsione venatoria sotto al palmo della mano. Ripartiamo da capo. Più avanti il bosco si dirada, lo so bene, trasformandosi in pascolo: se non ci offre subito una rimessa vicina, dobbiamo ributtarci verso il basso e all’indietro per ritrovarla, perché, ne sono certo, madama beccaccia non ha osato abbandonare la selva per sfidare gli spazi aperti. E così è: scendiamo per la ripa e in capo a un minuto la valle stretta a vu si offre a noi in tutta la sua incertezza. Dov’è? Non c’è un’ipotesi più plausibile di un’altra, l’unica è provare. M’incammino, da qualche parte bisogna pur cominciare, ma lui, Caleb, non mi vien dietro: s’arrampica per la ripa opposta a quella da cui siamo scesi e sparisce in mezzo alla vegetazione. Sparisce, a parte il tintinnio del campanello. E poi scompare anche quello. Silenzio assoluto, a parte il vento. Speranza e incredulità assieme: che sia in ferma? Vado su dritto anch’io per la sponda, a fatica, una mano regge la doppietta e l’altra libera per aggrapparsi a rami e rocce, gli scarponi che sfruttano ogni esigua promessa. Ci sono: la pendenza cala, il fitto comunque non semplifica. Ma adesso finalmente lo vedo. Cinquanta metri. Immobile come pietra. Tutto è fermo. A parte il vento. Affretto il passo. Adesso sono a tiro: la doppietta morbidamente imbracciata ma pronta per la stoccata. Non devo sbagliarla. Ma non c’è ancora l’occasione. No. Troppo comodo. Caleb muove piano la testa di lato, come per vedere meglio, seppure col naso, poi piano si volta con tutto il corpo e comincia a camminare: pedina, questa pedina di brutto. In fretta mi porto al suo fianco, mentre con gli occhi la cerco sul terreno. Di nuovo fermo, ma anche davanti a noi nulla che si muova. Dove sei, beccaccia? Faggi e abeti non hanno risposta, si limitano a far da spettatori. Ancora solo il vento, in alto tra i rami, anima questa piccola parte di mondo. Lascia. Comincia a cercare tutto intorno, prima il naso a terra e poi sollevato, a tentare di leggere l’aria. Via. È già andata via. Un volo breve oppure lungo. Chissà. Però Caleb sembra deciso. Va dritto in una direzione. Poi ci ripensa e torna. Io non ho ancora fatto un passo. Adesso mi fido, sento di potermi fidare. Lascio fare a lui. Avanza nel bosco, accorto come non l’ho visto mai, quasi sicuro. Stavolta gli vado dietro. Una zampa anteriore che si cristallizza in un passo che non si decide a fare. È di nuovo in ferma: un volo corto, un salto per confonderci le idee. Dio, non devo sbagliare. Ma non è ancora l’occasione giusta: Caleb si decide a posare piano la zampa, tastando l’aria timidamente prima di trovare l’appoggio sul terreno, e poi ricomincia a guidare, il muso puntato fisso in avanti e le zampe che si muovono in automatico. Io non lo vedo quel filo invisibile, ma so che c’è. Però abbandona, di nuovo. È saltata via. Ancora. E ancora lo lascio fare. Vedo che prova a riannodare quel filo spezzato. Dai che ce la fai. Avanti, più avanti. Fermo. È qua, stavolta c’è, ne sono sicuro, presa in mezzo fra noi e il prato che già intravedo dove finiscono i tronchi. Il blu del cielo sa di libertà per chi possiede ali, ma non si butta ancora. Non si fida. Fermo, Caleb, fermo. E tu, Dio, fa che non sbagli. Di nuovo soltanto il vento, alcune foglie che cadono e se vanno, di traverso, chissà dove. Eccola. È già per aria. Non ci penso ma semplicemente faccio: pam! Il dito, che è già sulla seconda, si blocca. Vedo Caleb partire: anche lui l’ha vista cadere senza appello. Adesso è tua, gli dico mentalmente, tutta tua.
«Già. Ti ricordi?» ripeté l’uomo.
Caleb non rispose. Stava sdraiato sulla coperta vicino alla stufa.
L’uomo, che stava seduto per terra accanto a lui, allungò una mano per carezzarlo. Sentì che le orecchie erano fredde. Nessuna reazione. Ritirò la mano e lo guardò: il sollevarsi lento del fianco col respiro era l’unico accenno di vita.
«Certo che allora eri un bel testone. Quanti anni son passati?» domandò l’uomo. Cercò di contare, aiutandosi con le dita di entrambe le mani. Contò due volte. «Quattordici» si rispose. I suoi pensieri, prima, l’avevano portato in un posto strano ma conosciuto e sicuro, distante dal presente, e avrebbe voluto tornarci. Magari assieme a Caleb. Ma sapeva che ciò non era possibile. La realtà era quella che gli stava di fronte: Caleb stava morendo.
L’uomo ripensò all’anno prima, a quel pomeriggio novembrino in cui le nebbie vaganti avevano risalito la valle e s’erano impadronite dei boschi, aiutate da uno scirocco traditore che per tre giorni aveva morso e mangiato la prima neve della stagione. Aveva piovuto forte tutta la notte e anche al mattino una pioviggine antipatica, fine ma fitta, aveva tenuto bagnate le foglie cadute e disegnato umidi arabeschi su rami e ragnatele. Erano usciti fuori contenti, lui e Caleb, come nei giorni migliori. Un paio d’ore a camminare nel bosco e nulla più, anche perché adesso gli toccava di aspettarlo. Non come una volta, che stargli dietro era un’impresa, per non dire del trovarlo in ferma nei luoghi più nascosti. Era stato come un percorso inverso: adesso era lui, l’uomo, a dover rallentare il passo, anche soltanto per non far pesare la vecchiaia a lui, il cane. E quando erano arrivati su, dove il sentiero stretto si smorzava in uno più largo che tagliava in costa il bosco, Caleb aveva messo il naso in terra e ve l’aveva lasciato, mentre con gli occhi, inquieti come una volta, si guardava attorno. E se fosse? Beh, poteva essere. Sì. Due passi, un piccolo larice rinsecchito: seconda ferma. Adesso non ho più dubbi. La doppietta, senza accorgermene, è già passata dalla spalla alle mani. Altri due passi e di nuovo il naso a terra per leggere, poi parte deciso per il sentiero, un trotto che è quasi la corsa della giovinezza dei tempi andati. Gli vado dietro e mi accorgo che sono di nuovo io quello che deve andar di fretta e ne sono contento. Lo vedo uscire dal largo sentiero e scendere di qualche metro nel bosco, tra i grigi tronchi dei faggi. Disegna una curva radente e stop: fermo immobile. Anch’io salto fuori dal sentiero e a passi accorti mi faccio sotto. Caleb sembra scolpito. Una parte di me però valuta anche il resto: sì, dovrei riuscire a tirare abbastanza bene. Il tempo passa. Un minuto? Due? Poi Caleb che fa un passo in avanti e allunga il muso: un movimento elegante ma deciso che non dimenticherò mai. Come a dirmi: ma la vedi o non la vedi? Ed io che traccio questa linea immaginaria e la seguo con lo sguardo. La vedo. Posata, qualche metro avanti a lui. La vedo benissimo. Anche lei ci guarda, foglia tra le foglie ma con quell’occhio vivo che tutto capisce. No, non voglio rischiare di deludere Caleb: dai. Mi allontano camminando all’indietro, non voglio rovinarla, e nel contempo sollevo la doppietta e vado in mira. Non sono abituato a far così, ma non voglio rischiare: potrebbe essere l’ultima di Caleb. Lei, la beccaccia, aspetta la morte tranquilla. Sembra che faccia apposta, come una storia già scritta. Lo sparo. Il riporto. Odore di polvere bruciata nell’aria. Le nebbie basse, così come s’erano aperte, pian piano si rinserrano, come un sipario.
«Tra quella tua prima beccaccia ben presa e l’ultima è passata tutta un’intera vita. La tua. E anche parte della mia.» L’uomo stavolta fece meno fatica a tornare al presente. Forse perché gli sembrava soltanto ieri, anche se intanto era passato un altro anno.
Caleb era uscito male dall’inverno, le gambe dietro s’erano fatte prima rigide e poi molli e oramai cedevano senza alcun preavviso. Nemmeno il sole caldo dell’estate aveva giovato: passava ore e ore a dormire, a volte immobile come morto altre tremando e uggiolando dietro a sogni di caccia. E infine era arrivato l’autunno, al solito, ma questa volta non c’erano più boschi né beccacce. C’erano soltanto questa coperta, il silenzio della stanza e il caldo della stufa che forse nemmeno sentiva.
Voleva provare un’ultima volta: prese un pezzo di formaggio profumato dal piatto che stava posato per terra tra loro due e glielo mise sotto al naso. Erano tre giorni che non mangiava. Nemmeno beveva. Neanche il latte tiepido.
Niente da fare. L’uomo, che era così abituato a vedere quel naso fremere, ci rimase ancora male. Rimise il pezzo di formaggio nel piatto e poi si levò in piedi. Andò a cercare il pacchetto delle sigarette nel taschino, lo estrasse e lo tenne in mano, guardandolo come un oggetto sconosciuto mai visto prima. Lo gettò lontano, in un angolo della stanza, e tornò a sedersi accanto al cane.
«Ti voglio bene, sai?» Ancora queste orecchie fredde.
Sollevò con delicatezza il muso del cane e strisciando sotto piano col sedere lungo il pavimento riuscì a posarselo sulla coscia: era inerte, come può esserlo un sasso. Guardò all’occhio infossato, quasi spento: mi vedi? Toccò il labbro, secco. Poi passò con le dita sotto l’occhio. Carezzò il capo, la nuca, il collo. Infine si fermò con la mano aperta sul fianco. Respirava. Il cuore batteva. Gli sembrò incredibile, impossibile.
Ci aveva ragionato tanto in questi ultimi mesi. Sapeva che per i cani è un privilegio poter passare l’intera esistenza con chi gli vuol bene. Sapeva che le loro vite scorrono e se ne vanno più veloci delle nostre. Sapeva che l’importante è avere avuto dei bei momenti assieme. Eppure non gli bastava. Ci aveva proprio ragionato tanto, ma non era servito. Non gli serviva. Si sentiva inerme, come un bambino che non ha ancora conosciuto la crudeltà inevitabile della morte.
«Eri grande così, quando sei entrato in questa casa e nella mia vita». Per spiegarglielo meglio, l’uomo staccò la mano e aiutandosi con l’altra mimò l’altezza. Si ricordava bene: l’aveva preso in braccio, perché aveva sentito la paura e la solitudine del cucciolo staccato dalla madre. Caleb. Gli aveva dato questo nome strano, antico: era stato l’arciprete a consigliarlo. La Bibbia, la terra promessa, qualcosa del genere. Non se ne intendeva molto, lui, di queste cose, ma quello era stato. L’aveva visto crescere, farsi forte e agile. Imparare. Farsi scaltro a caccia. E invecchiare. Non era poco, a ben pensarci. Ma lo stesso non consolava.
Tornò a carezzarlo: per un istante gli sembrò che la coda accennasse un movimento, ma capì subito ch’era stata soltanto una sua impressione, un desiderio irrisolto. Anche il formaggio: basta, inutile insistere.
«Dio, per favore lascialo morire» pregò e minacciò l’uomo. La sua voce echeggiò nella stanza, risentita.
Nessuno rispose. Non che se lo aspettasse. Di un Dio che ti risolva i problemi a comando, che ti obbedisca a bacchetta, aveva sentito parlare ma lui mai l’aveva conosciuto.
«Stupido» si disse l’uomo. Scosse la testa. Si nasce e si muore, pensò, questa è la regola. Da sempre. Caleb è alla fine del sentiero. Tutto qui.
Avrebbe voluto crederci. Ma ancora non ci riusciva. Non era così semplice. Era come se il ragionamento l’avesse fatto un altro.
Sapeva bene che c’è sempre una fine se prima c’è stato un inizio. Ma non gli bastava. Sapeva bene che quel che ci frega, a noi umani, è che ce ne rendiamo conto. Che forse alla fine è più il tempo che passiamo a pensare alla vita che fugge che quello impiegato a viverla. E che bisognerebbe invece guardare proprio ai cani, alla loro saggezza. Loro sì che hanno capito tutto. Loro sono maestri nell’insegnarci a vivere nell’unica dimensione che valga qualcosa: il presente. Noi per sentirci felici dobbiamo sempre fare dei bilanci, tirare delle somme, loro invece hanno risolto al meglio.
«E c’è ancora chi li considera soltanto una proprietà» disse l’uomo a mezza voce «certi cacciatori credono che siano solo un attrezzo, al pari del fucile e della cartuccia.»
No, pensò l’uomo, io preferisco amici. I migliori. Caccia o non caccia. Di razza o bastardi. Piccoli o grandi. Pelo lungo. Pelo corto. Colore. Non ha importanza. Come per gli uomini: conta ciò che c’è dentro. Eri lupo, sei diventato cane: ci sarà stato un motivo.
L’uomo si piegò sul cane e nel contempo gli sollevò la testa. Voleva dirgli ancora qualcosa, ma non sapeva come. Rimase lì così, muto, guancia contro guancia. Doveva decidersi. Voleva decidersi. Ricacciò le lacrime in gola. Provò a inventarsi un sorriso. Sperò che Caleb, il suo amico Caleb, lo sentisse. Lo strinse appena un po’ più forte a sé. Tra breve l’avrebbe preso in braccio. Anche per rassicurarlo, come quando era cucciolo. Magari il suo orecchio di cane aveva imparato a riconoscere il battito del suo cuore d’uomo e in qualche modo gli avrebbe fatto compagnia. L’avrebbe portato giù in paese, dal veterinario. Prima l’avrebbe fatto addormentare e poi l’avrebbe lasciato dormire per sempre. Dopo ci sarebbe stata una buca in giardino da scavare, riempire e ricoprire. In primavera sarebbe ricresciuta l’erba e d’inverno sopra ci sarebbe caduta lieve la neve.
Le premiazioni di Vicenza: da sinistra Romano Pesenti (presidente della Giuria del concorso), Matteo Marzotto (Presidente Fiera di Vicenza SpA), Claudio Zanini (vincitore dell'edizione 2014), Alessandro Bassignana (Amministratore Unico di Cacciando.com), Piero Torosani (responsabile commerciale della Bernardelli SpA).