Ultima notte di bivacco
- Scritto da Flavio Vago
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Ero partito tardi il mattino avanti. Pioveva giù al piano, di quella pioggia monotona e sottile ch’empie d’uggia i giorni dei morti. Volevo salire per l’ultima volta al Campo, con la scusa di riportare a valle il sacco a pelo ed altre cose utili a render meno dure le notti di bivacco. L’idea, però, di scarpinare su per il sentiero per qualche ora sotto la pioggia smorzava ogni slancio. Invece all’imbocco della valle, dagli sprazzi di cielo azzurrino, un bel sole ravvivava i fianchi dei monti incendiandoli con gialle fiammate d’oro antico e vampe rosso ramate. Le nebbie compatte e viscide nascondevano le cime, vapori ovattati si sfilacciavano sui fianchi come impigliati tra i rami e da questi trattenuti nel loro incedere fluttuante verso i crinali. Anche i miei pensieri lungamente indugiavano, dolcemente attratti, tra le vallette ombrose rigate da rivoli sommessi, dove le foglie deposte fan più in fretta a marcire ed il richiamo malioso è nall’aria, quasi palpabile, a cercare con mille lusinghe di farmi scordare gli alti pascoli, le creste affilate, i silenzi infiniti, le sbornie di spazi.
Perchè alle volte t’assale e si acquartiera nel cuore una gran tristezza fonda che non ha, apparente, ragione alcuna ed apparecchia l’animo ad una grande mestizia? Intime confessioni, riaffioranti dolcezze che si credevan perdute, antiche gioie e recenti dolori ti accompagnano discreti, passo dietro passo sui sassi viscidi del sentiero che si rimbocca la coperta di foglie preparandosi al gelo, sui muschi soffici e gli aghi silenti di abete, lungo le sponde del torrente che pare avere gran furia di scendere a valle.
I fili d’erba, gli steli dei fiori ormai spogli, i cespugli rabbrividiscono di brillanti, minutissime lacrime. Ogni foglia caduta raccoglie frammenti di cielo.
C’è nell’aria, nel tripudio di colori, un sentore fondo di cose che stan per cambiare, una pacata voglia di tenerezze che prelude il timore di una sofferenza cruda che il tempo lentamente matura.
Quanto vere, sentite e sincere son le preghiere quassu. Ti nascono dal fondo dell’anima e gorgogliando piano salgono in gola per essere quietamente recitate, anche solo pensate. Vorresti averne una per tutti e quasi ti senti in torto per quelli che, involontariamente, non hai ricordato.
Ho ritrovato ogni cosa come l’avevo lasciata sei giorni prima, tutto nello stesso posto, immutato come i gesti semplici di una vita essenziale: preparare la legna per un timido fuoco di bivacco, fare provvista d’acqua giù al torrente, dove una vena sorride alla luce ritrovata sgorgando querula dall’argine, accendere la tremula fiamma delle candele sulla tavola, godere dell’intimo contatto, finalmente rinnovato, coi cani. Quietamente seduto sulla panca di pietra disposta all’ingresso della baita accanto, ho lasciato l’anima fondersi con la struggente, infinita mestizia dell’alta sera alpina, sperando che le coturnici s’unissero alla mia preghiera sgranando il corale rosario dai loro vertiginosi pulpiti di roccia.
Poi la notte è dilagata silente racchiudendo sotto le piode sconnesse, stretti nell’incerto alone di un timido fuoco, i nostri piccoli cuori ed il loro trepido mondo di sogni e di speranze.
Il cielo terso, tempestato di tremule stelle, pareva appena sospeso sopra le alte cime.
Ho aspettato che schiarisse seduto sul sentiero quasi alla sommità dell’Erta, poco sotto i paglioni. I cani trepidanti e vigili, costretti in forte abbraccio contro i miei fianchi, mi trasmettevano i brividi affioranti di una passione a stento trattenuta e prossima a tracimare.
Il cuore peso di un triste presagio, l’ultima volta della stagione, forse di sempre, in quella valle.
Da qualche tempo in paese i cacciatori mormoravano a denti stretti parole nuove, sigle misteriose arrivate da lontano e rovinosamente franate come macigni tra i tetti di piode, scuotendo il fluire cadenzato delle cose d’ogni giorno tra i muri di pietra delle case. Tanto concise quanto presaghe di infausti accadimenti: “ZPS, SIC”; il suono che n’esce dalle labbra pronunciandole evoca brividi di rasoiate inferte nella carne viva.
Verso est schiariva, le cime attizzate dai primi raggi del sole rimandavano chiarità di colori intensi, trasparenze cristalline, candori di nevi recenti ed ancora immacolate. Giù in basso, lontano, il piano; un indistino mescolio di nebbie confuse in cui l’animo umano s’impadula oppresso dalla necessità del superfluo, si dibatte ed annaspa boccheggiante per il forzato viver coatto. “Quassù i pensieri son tanto diversi”.
Lo sfogo del galoppo sfrenato, l’ardente desiderio di realizzare l’agognato incontro con le ciarliere comari di rocce e pascoli d’altura; son già lontani i cani, sulla sommità dei paglioni. Incrocian le coturne ai piedi dei paretoni, ancor troppo vigili e scoperte sulla prima pastura, tra radi steli rinsecchiti di paleo sdegnato anche dagli armenti, inavvicinabili. L’appena percepito scroscio d’ali segna un’incontro sfumato.
Oggi non si riesce di gestirli. Anche il vecchio, dimentico di tutti gli acciacchi, si prende licenze di “allunghi” interminabili, per esplorare posti, per me, irraggiungibili. Mi irrita questo loro lasciarmi in disparte, ridurmi a comprimario, quasi comparsa. Ecco, Artù, il padre, è nuovamente sparito. Lo attendo a lungo inutilmente. Guadagno la sommità di un promontorio per poter spaziare con lo sguardo lontano. Nulla. Sono solo, nell’ immobilità di solitudini vaste, nei silenzi profondi, nell’ immutabile scorrer del tempo.
Forse laggiù, un masso pare animarsi, è lui. Si muove cauto di traverso al pendio, strisciando sul percorso indicato dall’inebriante effluvio, piega verso l’alto per pochi passi ancora, lentamente si arresta. Immobile, concentrato, rapito. Le ha nel naso e si sono fermate, arroccate tra i massi poco più in alto di dove ero passato, sulla destra della valletta che raccoglie sconvolte lacrime di roccia che le pareti sovrastanti gemono sgretolandosi. Ed è subito tumulto di cuore, corsa affannosa sulle rocce che il fiato gelido della notte ha incamiciato di vetro, cercando l’equilibrio, evitando rumori. Minuti che scorrono, imprecazioni, preghiere: “Un momento, un momento ancora, aspettate!”. Il giovane ha scorto il padre e si è fermato qualche metro più in basso, ora ci sono anch’io, è l’altissimo attimo in cui non vi sono pensieri, ne rumori o colori, null’altro all’infuori di un pugno di trepidi cuori pulsanti allo spasimo di opposte tensioni. Qualcuno romperà l’incanto. E’ il giovane Fast e subitamente esplode nell’aria sconvolta dal turbinio d’ali, la brigata di coturne, come fuoco d’artificio color delle rocce, riflessi azzurini di cielo striati di terra, scintillanti di gocce vermiglie. L’emozione dirompe percuotendo il cuore, nel vorticoso mulinare di sensazioni la mente fatica a dominare i sensi. Ne scelgo una....la più sfortunata.
Cade di schianto tra le rocce che furon sua casa e sicuro rifugio e ristà, esanime, fino all’arrivo di Fast che, maleducato, ruba al padre il meritato piacere di deporla nelle mie mani.
Non è lo zaino pur greve sulle spalle che mi opprime, ma il peso dell’abbandono che porto nel cuore.
Mi giro a salutare le baite dell’alpe e con lo sguardo abbraccio la vasta conca che le accoglie; scenderò piano indugiando sopra il sentiero, di traverso ai magri pascoli alpini.
I cani mi precedono distanti sullo stesso mio percorso contrariandomi un poco. Nella piccola conca che si stringe in alto sfociando in una modesta giavina l’incontro non è inatteso, ne son presagio sicuro fatte fresche sparse tra le erbe. I cani le hanno avvertite e risalgono il fianco della montagna con ampi fendenti e ritrovata energia, superandosi spariscono oltre una gobba. Così finiranno per forzarle, il terreno è troppo spoglio e le coturnici non reggeranno fino al mio arrivo. Meglio scegliere un buon punto ed aspettare. Provati a ricordare, se ci riesci, quali pensieri, se mai ne hai formulati, ti frullano per la testa mentre, puntati i piedi alla meglio dove è meno forte la pendenza, con la schiena volta al lungo precipitar sul fondo di pascoli e dirupi ed il viso teso in alto, stai a scrutar nell’aria un punto appena percepito tra roccia e cielo che subitamente materializza venendoti d’incontro in vertiginoso volo. Due sassi sibilano in picchiata sulla mia destra al limite della portata del fucile, cerco inutilmente fortuna di seconda canna, ne arrivano altre, la ritardataria è la più vicina, fatalmente vicina. Cade più in basso, ruzzolando nell’erba rada per qualche metro, lasciando piume ad adornare gli steli rinsecchiti, fino a giacer confusa tra i sassi sparsi, frammento esanime di roccia essa stssa. I cani, che non l’han vista, tardano a venire.
Seduto su un masso, la doppietta aperta posata di traverso sulle ginocchia, la osservo da pochi passi giacere scomposta, le penne un po’ arruffate lievemente mosse dalla brezza, la gioia che asssaporo si vena di tristezza.
Le nubi han preso possesso delle creste e si accingono a scendere al fondo valle, le superstiti, sbrancate, si richiamano nella nebbia, sarebbe facile gioco averne ragione, ma ho già avuto più di quanto avessi sperato, che sia tregua, un arrivederci, spero non un addio.
C’è ancora tempo per inseguire un sogno, laggiù nel bosco, al bordo dei prati, il fascino malioso di due umidi occhi neri, lungo il sentiero che riporta al piano.
Lirurus Tetrix