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IL MUFLONE SULLE ALPI

IL MUFLONE SULLE ALPI
Articolo pubblicato su DIANA n. 19 del 2015 
testo di Alessandro Bassignana e foto di Batti Gai
 
Il muflone, Ovis ammon musimon, è una pecora selvatica caratterizzata da lunghe corna a spirale che i maschi, detti arieti, arrivano ad esibire dopo alcuni anni di vita. 
Originario di Sardegna e Corsica, dove si dice furono portati 5.000 anni fa dai Fenici, questi ungulati sono stati immessi nel continente europeo, divenendo in breve croce e delizia per i cacciatori con carabina.
Nell’ultimo dopoguerra la caccia a palla in Italia si limitava alle Alpi, dove si potevano trovare ancora camosci e caprioli, ma questi solo sull’arco alpino orientale, o a qualche riserva dell’Appennino dove insieme al cinghiale si poteva trovare anche qualche cervo o daino. 
Massicce reintroduzioni furono effettuate a partire dagli anni sessanta e in breve caprioli cervi e daini (questi alloctoni e introdotti in parchi a riserve quasi ad uso…ornamentale) tornarono a popolare aree da cui erano estinti da molto tempo.
Non finì lì, e un altro interessante selvatico andò ad incrementare la popolazione ungulata del Bel Paese: il muflone!
Questo animale è un ruminante pascolatore della famiglia dei bovidi; si tratta dunque di un selvatico abbastanza simile ad una pecora, con un corpo massiccio e compatto inscritto nel quadrato e di un’altezza al garrese poco inferiore al metro; il maschio può raggiungere e superare i 50 chili di peso.
Il suo manto è di colore marrone bruno che tende al rossiccio, e muta nel corso dell’anno. In inverno presenta il collo ornato da una folta e lunga criniera di peli scuri ed una sella dorsale bianca, elemento distintivo di quelli che sono considerati esemplari “puri”, giacché il mufllone può facilmente ibridarsi con le pecore domestiche che spesso vengono condotte nelle zone ove lui vive libero.
I maschi sono portatori di grossa corna, cave e che crescono a spirale per tutta la vita, con anelli di accrescimento annuale che, come per camosci e stambecchi, consentono di determinarne l’età; i vecchi arieti arrivano ad averle lunghe oltre i 70 cm, mentre non sono rari i trofei che raggiungono i 90.
Il muflone è un animale molto robusto e vigoroso, tale da offrire molte soddisfazioni dal punto di vista venatorio e così venne introdotto sin dal Settecento nell’Europa continentale, sembra, primo tra tutti, da Eugenio di Savoia, principe e generale al soldo degli Asburgo, che ne fece trasferire alcuni esemplari nel giardino zoologico della capitale austriaca. 
Fu l’inizio, perché dopo allora la bella pecora selvatica ebbe modo di diffondersi nell’aerea mitteleuropea, tanto da essere ormai stabilmente presente in paesi come Austria, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia per raggiungere infine anche la Russia.
Altri esemplari, frutto di immissioni successive, vennero rilasciati anche in Francia e Spagna, tanto che ora il muflone, a macchia di leopardo, si può dirsi ampiamente diffuso, con una popolazione di svariate decine di migliaia di capi.
E veniamo all’Italia, dove negli anni sessanta del passato secolo si pensò di operare con immissioni per finalità venatorie. Si cominciò con alcune riserve private dell’Italia centrale, come quella di Miemo dove una discreta popolazione è presente e consolidata sin da quegli anni, e ancora nelle foreste casentinesi e poi più giù, sin verso il Gargano. Ad oggi si può affermare con sicurezza che siano alcune decine i nuclei di animali sparsi qua e là per lo stivale, con popolazioni ormai ben definite; ma oggi ci interesseremo di quelli che furono immessi sulle Alpi Piemontesi, dove il muflone crebbe di numero molto rapidamente.
Anche in questo caso il primo esperimento venne operato per fini venatori, nel 1962 in quella che ormai è conosciuta in tutt’Italia per essere una delle più belle aziende faunistiche dell’intero arco alpino: l’Albergian.
Questa azienda, cui la Regione Piemonte ha recentemente rinnovato la concessione sino al 31/01/2020 per complessivi 6.582 ettari, si trova in Provincia di Torino e ricade nei comuni di Fenestrelle ed Usseaux, in Alta Val Chisone; per chi percorra la valle, provenendo dalla pianura e in direzione della rinomata località sciistica di Sestriere, sede di gare olimpiche di sci alpino, o di quella di Pragelato, dove invece si tennero le prove di salto, combinata nordica e fondo, la zona è facilmente individuabile per la presenza del Forte San Carlo, l’imponente fortificazione voluta dai Savoia a difesa degli attacchi francesi al loro Ducato.
Il forte, voluto nel 1.727 dal re sabaudo Vittorio Amedeo II e ormai definito “La Grande Muraglia Piemontese”, risulta formato da tre complessi collegati tra loro e chiude tutta la valle con un’imponente scalinata interamente coperta di 3.996 scalini lunga quasi due chilometri e protetta da mura che sono spesse due metri.   L’intera architettura si snoda per quasi tre chilometri arrivando a coprire un dislivello di quasi 600 metri, praticamente da fondovalle sino ad oltre i 1.700 metri d’altitudine.
I primi mufloni piemontesi ebbero quindi a correre liberi in quei boschi di larice, pino silvestre, cirmoli e pini uncinati, pascolando tra vacche e pecore ed entrando in concorrenza con l’unico altro ungulato presente in quegli anni: il camoscio.
E già, perché questa pecora selvatica entra in competizione alimentare con quel suo cugino a corna uncinata, la Rupicapra rupicapra che sulle Alpi Piemontesi ci vive da sempre; se poi i due animali s’incontrano il muflone scaccia il camoscio, occupandone il territorio.
Il problema non si pone quando sono poche decine i soggetti presenti, ma a partire dagli anni ottanta la popolazione degli ungulati esplose letteralmente un po’ ovunque, e dunque anche nell’azienda faunistica della provincia torinese.
Il muflone è animale robustissimo, adattabile, e da quel primo nucleo se ne gemmarono altri, un po’ per naturale dispersione verso i limitrofi Comprensori Alpini (l’azienda confina, oltre che con il Parco dell’Orsiera-Rocciavrè, con il CATO1 e il CATO2) e per successive immissioni, tanto che in pochi anni la sua presenza venne registrata, solo per restare alla Provincia di Torino, anche nelle Valli di Lanzo e in Val Pellice.
Altri esemplari furono rilasciati nel cuneese, biellese e vercellese, Verbano-Cusio-Ossola, completando così l’intero arco alpino piemontese, rinforzato da quei soggetti che stagionalmente emigravano dalla Francia, valicando le montagne per abbandonare i versanti transalpini maggiormente innevati e scendere su versanti italiani, esposti a sud e maggiormente soleggiati.
Sebbene il muflone origini da isole a clima mediterraneo, caldo e certo più secco, la folta pelliccia lo difende piuttosto bene dal freddo consentendogli la sopravvivenza anche dove la colonnina di mercurio può scendere sotto lo zero di venti, trenta gradi; non altrettanto sembra tollerare bene la neve alta e quindi copiose nevicate lo spingono verso il fondovalle. Chi negli anni ottanta saliva verso il Colle del Sestriere per sciare spesso ne avvistava branchi di decine d’elementi…parcheggiati a bordo strada, intenti a pascolare placidamente ed assolutamente indifferenti al flusso automobilistico!
Scrivevamo poco sopra che il muflone si diffuse rapidamente anche al di fuori di riserve e parchi e così alla fine degli ottanta se ne iniziò il prelievo venatorio, confortati da censimenti che ne attestavano una presenza in costante crescita.
Veniamo dunque alla sua caccia, perché vanno riconosciute a quel selvatico caratteristiche che lo rendono preda difficile ed ambita, certamente non abbordabile sulle nostre montagne a tutti i cacciatori.
Il muflone vive in grossi branchi che si muovono uniti e generalmente guidati, come capita anche per i cervi, da una vecchia femmina; i maschi, compresi i grossi arieti, però non s’allontanano mai troppo, e nemmeno vivono isolati per lunghi periodi dell’anno come fanno i camosci, ma restano in contatto con agnelli e “muffle” (femmine), pronti a scacciare gli intrusi che osassero avvicinarsi.
Tutto questo favorisce la loro difesa, disponendo ogni capo di moltissime narici e paia d’occhi od orecchi che vigilano sull’incolumità propria, ma li rende anche più vulnerabili perché una volta individuato qualche soggetto c’è quasi la certezza se ne trovino altri in prossimità; non bisogna infatti dimenticare come quest’animale sia in definitiva una pecora selvatica, e dunque anche per lui vale il principio…del gregge.
Pur se abbastanza abitudinari, tanto da frequentare gli stessi territori, i mufloni sono sempre in movimento e diffidentissimi, capaci di darsi alla fuga al primo segnale di pericolo; la loro caccia quindi impone massima prudenza e circospezione, specialmente per chi voglia farla alla cerca.
I suoi acutissimi sensi, e una vista superba, decisamente superiore a quella del camoscio, li rendono selvatici difficilissimi da cacciare, a meno non si conoscano bene i loro passaggi e li si aspetti a mattina o sera ove escono.
Quando si riesce ad arrivare a tiro utile di un branco o del soggetto giusto non bisogna indugiare troppo, giacché è abbastanza probabile che l’animale possa avvertire la presenza del cacciatore, rendendo vani lunghi e faticosi avvicinamenti; ma nemmeno bisogna…sparare troppo precipitosamente perché il muflone è un formidabile incassatore, molto più robusto di altri ungulati analoghi, e quindi la palla deve essere piazzata con precisione, rendendo mortale il colpo.
Per cacciarlo sulle Alpi si usano calibri tesi e palle dure o a deformazione controllata, anche se negli ultimi anni, anche favorite dalle ultime normative di legge, si stanno sempre più imponendo le così dette “monolitiche”, palle prive di piombo e perciò considerate atossiche; pro e contro dividono tifosi e detrattori di questi nuovi proiettili, generalmente costruiti in lega di rame, ma resta il fatto che nel futuro dovremo sempre più abituarci a questa scelta.
I calibri più indicati sono quelli della gamma 6,5 mm, dal 6,5x55 Sweden sino al 6,5x68 Schuler senza dimenticare il magnifico Weatherby 257 Magnum, e 7 mm, dove a farla da padrone sono gli intramontabili 270 W, 7x64 e 7 mm Remington Magnum.
Salendo di diametro sempre ottimi il 308 W e il 30-06 Springfield, all round per eccellenza, mentre anche i 6 mm sono capaci di regalare grandi soddisfazione se accoppiati alla palla giusta; in questo caso non vanno disdegnati il 243 W, il 240 Weatherby Magnum e il 6x62 Freres.
Torniamo ora ai nostri mufloni alpini, per capire quale sia il loro stato di salute attuale.
Dovessimo farlo con una sola parola questa non potrebbe essere che: pessimo! Almeno in Provincia di Torino.
Ma cos’è successo allora negli ultimi anni, se solo sino ad un paio di lustri fa la sua popolazione sembrava in costante crescita?
Le ragioni sono molte, a partire dalla consapevolezza che la sua introduzione sull’arco alpino aveva generato squilibri a danno dei camosci, e dunque la volontà se non…d’eradicarlo quanto meno di controllarne l’aumento numerico; ma anche altre, certo più particolari e serie, forse anche irreversibili.
La prima botta l’ebbero durante l’inverno 2008/2009, caratterizzato da ripetute e copiose nevicate come non avvenivano da decenni, capaci di incidere pesantemente su tutte le popolazioni ungulate alpine, a partire a stambecchi, camosci, cervi e caprioli, e dunque a maggior ragione dei mufloni che con la neve hanno…scarso feeling. La stagione successiva a quella i censimenti attestarono una fortissima diminuzione, in alcuni casi anche un dimezzamento, di ogni selvatico ungulato; ciò però non basta ancora a spiegare quanto accaduto.
Veniamo dunque all’altra ragione, che certo appare come motivazione più credibile: la comparsa di un nuovo abitante delle nostre montagne, il lupo
Secoli di persecuzione l’avevano di fatto estinto sulle Alpi ma ora il temuto predatore ritornava…in forze, chi dice per migrazione spontanea dall’Appennino Abruzzese, chi invece per azione dell’uomo che l’avrebbe rilasciato proprio per controllare il numero crescente di ungulati in certe aree dell’arco alpino.
Non è in questa occasione che affronteremo la questione, preferendo che ciascuno si faccia la sua idea, ma resta il fatto che da quel primo avvistamento a metà anni ottanta nel Parco del Mercantour francese, e quelli di alcuni anni dopo in quelli torinese della Val Troncea e del Gran Bosco di Salbertrand (guarda caso prima da noi che in Liguria, dove ora sembra prosperare, e sempre in aree protette dall’uomo!) Ezechiele di strada ne ha fatta parecchia e di animali selvatici, o anche domestici, divorati a migliaia. 
Il muflone storicamente non è mai venuto a contatto con il formidabile predatore, assente dalle zone ove viveva lui, e dunque pare essere particolarmente vulnerabile ai suoi attacchi; ovunque si sia registrata la presenza di lupi il numero di ungulati è drasticamente diminuito, ma sono proprio gli ovini selvatici ad avere versato il più pesante tributo di sangue.
Alcuni dati lo confermano in maniera piuttosto netta, tanto che nelle zone dove il loro numero era piuttosto consistente (280 esemplari censiti nel 1999 in Val Pellice, CATO1) ci si è ridotti a poche decine d’esemplari, minimo storico di quest’anno; egualmente nell’azienda faunistica Albergian si è passati dai…ben oltre mille capi degli anni d’oro ai molti meno di cento del 2015. E tutto ciò è avvenuto anche in altri Comparti Alpini torinesi, arrivando in taluni casi sino alla chiusura dei prelievi, come avvenuto nel CATO4 (Valli di Lanzo, Ceronda e Casternone); restando al Piemonte situazioni analoghe si stanno verificando nel cuneese, o anche in alcuni ATC alessandrini dove il muflone cominciava ad essere prelevato con regolarità ed ora si registrano numerose predazioni ai suoi danni.
Altrove sull’arco alpino la situazione appare migliore, e viene ancora cacciato con soddisfazione, ma lì il lupo non è ancora presenza stabile; temo che per il muflone piemontese, e quello alpino in primis, il destino sia ormai segnato.  
 
 
 
 
 
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