Più fatti e meno parole
- Scritto da Marco Sartori
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Tira una strana aria nel mondo della caccia.
Nuove forze politiche si muovono sul campo; strumenti mai visti prima ci permettono di comunicare a velocità impressionante attraverso le regioni e i continenti; animali che credevamo quasi estinti o relegati alla sfera del ricordo e della leggenda si aggirano nuovamente tra i boschi e le montagne, qualche volta vicini alle nostre case. L’aspetto e il clima del mondo cambiano giorno dopo giorno ed è inutile che i romantici come me si impuntino perché tutto resti uguale. Di questo mutamento bisogna prendere atto.
I cacciatori non sono certo immobili, mossi ed eccitati come bandierine dal vento sferzante che attraversa il globo, ma pare che molto spesso rispondano agli stimoli con una certa svogliatezza, anziché sfoderare il formidabile bagaglio di esperienze e cultura che nei secoli hanno accumulato. Già, perché è qualche anno che l’uomo si muove tra le selve alla ricerca delle sue prede e sull’argomento aveva cominciato a studiare e scrivere molto tempo prima che tecnologia e informatica venissero ad imporre nuovi stili di vita e nuovi modi di pensare. Abbiamo la nostra da dire quando si parla di Ambiente e dovremmo poterlo fare con autorevolezza, eppure sembra il più delle volte che anche noi questa autorevolezza preferiamo lasciarla a casa, chiusa in un cassetto, facendoci prendere la mano da toni che si addicono più ai social network che alla schiatta di cui facciamo parte. Anche quando discutiamo tra di noi.
Si è affermato un certo gusto per una critica che fa show: si punta il dito, si sostengono teorie, capita anche di fare la voce grossa, ma a conti fatti sul campo, scarponi ai piedi, si vede sempre meno gente e così, proprio come accade al contemporaneo homo sapiens facebookensis, che in ogni occasione si dichiara paladino della Natura senza mai mettere il naso fuori dall’oblò del suo palmare, anche il cacciatore moderno comincia un po’ a staccare i piedi da terra, rimanendo sospeso.
Il rapporto del cacciatore con il territorio, quel caposaldo che qualche decennio fa era inteso come il plinto d’appoggio su cui edificare l’intero apparato giuridico e morale dell’attività venatoria del futuro, oggi per molti rimane un principio teorico da tirar fuori tutt’al più come asso nella manica quando si parla con un ambientalista antagonista, un argomento che ci legittimi come esperti conoscitori della campagna o dei monti. È troppo poco. Troppo poco davvero.
Lo dimostra l’atteggiamento che in molti hanno nei confronti dei censimenti della fauna selvatica: si mettono in discussione i metodi, i periodi, i risultati, arrivando persino a polemizzare ferocemente sulla loro utilità. Guai a legarli a una graduatoria meritocratica che quasi sempre sa di discriminazione e inciucio. Più democratica sembra essere l’assegnazione dei capi a rotazione e poi, diciamocelo, paghiamo questi benedetti trenta euro aggiuntivi e che nessuno ci parli più di alzarci alle tre e mezza di notte. A guardar le bestie ci vado quando voglio e quando mi fa comodo, che poi le statistiche potrò sempre consultarle sul sito del comprensorio e parlarne sul gruppo più adatto o nella chat dedicata! Non è così?
Sì, mi rispondo da solo, è così ma non va bene. Ho sempre pensato che se vuoi essere sicuro che la casa non ti crolli in testa, devi imparare a costruirtela da solo, o per lo meno provare a pensare come se dovessi farla tu, per valutare il lavoro del costruttore. Troppe deleghe alleggeriscono l’animo dalle responsabilità, ma al primo terremoto rischiano di farti finire sotto terra, come stiamo imparando sulla nostra pelle ultimamente. Alla gestione attiva della fauna non ci si può sottrarre e i cacciatori dovrebbero tornare a sfoderare un po’ di quell’entusiasmo intellettuale che negli ultimi decenni è andato appannandosi. Mentre la follia di politici e finanzieri lotta per imporre costantemente al popolino il concetto fasullo di una crescita economica che non sta né in cielo né in terra, sembra invece che la crescita culturale della gente abbia subito una brusca frenata. Riguarda anche di chi, come noi, dovrebbe occuparsi di cani, fagiani e camosci. Non è questione di apprendere informazioni, che per altro circolano in abbondanza come mai prima d’ora e sono condite con una buona misura di opinioni. È proprio questione di ritrovare il vero gusto della ricerca, di riscoprirsi desiderosi di imparare, di sperimentare sul campo, di tornare ad affondare le mani in quella materia umile che è la terra, smettendola per un attimo di fare i gestori per tornare ad esser cacciatori e scoprire che proprio così facendo riusciamo ad essere più utili proprio a quella gestione che tanto perseguiamo.
Ai censimenti, per tornare al punto di partenza, si partecipa sempre meno e con sempre minor preparazione: si arriva penosamente armati di preconcetti sul cambio del clima e sull’avvento del lupo anziché di un buon binocolo e di uno zaino pieno di quella buona volontà, di astuzia e di tutta la strategia venatoria che si immagazzina con anni di pratica, indispensabile per la buona riuscita del conteggio. Le sentenze e le teorie di gestione faunistica e del futuro della caccia lasciamole a chi ha competenza e capacità per esprimerle, e mettiamoci invece in cammino prima che il sole sorga. Oggi sono sempre le zampe degli stessi cani a perdere le unghie sulle pietraie per cercare pernici bianche e sempre gli stessi scarponi che si consumano tra i rododendri mentre si cercano dati per stabilire piani di prelievo di cui godranno anche coloro che hanno preferito rimanere a dormire.
Mio padre diceva che determinate cose “bisogna farle” e non si riferiva certo agli obblighi imposti da un’istituzione o una legge, ma al fatto che quando si è spinti da una necessità di partecipazione che nasce spontanea dentro di noi non si può farne a meno di rispondere eccomi! Allora sì che si torna a contatto con la terra, piantando radici forti da cui trarre sapere e riprendendo gusto per l’indagine e la crescita mentale.
E quando qualcuno ci attaccherà sventolando all’aria numeri estrapolati dalla rete, dati diffusi on-line e statistiche europee, potremo ribattere a testa alta che di quei numeri ci importa poco, perché con i nostri occhi abbiamo visto le cose come stanno e non come vengono dipinte, il mondo come è fatto e non come appare attraverso le immagini sui monitor dei telefoni, convinti della nostra forza e del nostro impegno, di aver fatto in buona fede tutto ciò che ci era possibile fare. Più fatti e meno parole.
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