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Il Pennino della Beccaccia

"Cacciatori e territorio"

Molti avranno capito che, come cacciatore, sono figlio di una scuola di pensiero un po’ particolare!

Mio padre e le persone che mi hanno visto muovere i primi passi in montagna, io li chiamo i miei maestri, mi hanno educato a conoscere la Natura in maniera profonda e da un punto di vista davvero originale. Erano, e qualcuno è ancora, una generazione di esseri umani più unica che rara: camminatori e tiratori formidabili, ma prima di tutto predatori in grado di porsi delle domande di senso su ciò che stavano facendo. Fino ad allora gli uomini occidentali avevano pensato per lo più ad attingere a quella fonte di sostentamento primaria che è la selvaggina. Avevano tirato d’arco, sparato, messo reti, trappole e lacci, fatto battute e safari senza farsi troppi scrupoli; in qualche modo avevano preso a giocarci con la morte degli animali, come qualche volta fa il gatto con il topo. Loro no.

Quando i venti della cultura avevano cominciato a girare, quando l’occhio critico delle masse si era posato sulla loro attività, avevano reagito dandosi un contegno e avevano stabilito che la loro amata caccia poteva continuare ad esistere solo fintanto che non andava ad incidere negativamente sulla salvaguardia delle specie selvatiche. Si erano fermati a pensare e avevano messo al centro delle proprie riflessioni la tutela della fauna. Avevano cercato di eliminare i fattori negativi e si erano accorti che la superficialità di pensiero nel cacciatore spesso era dovuta a una disaffezione, alla mancanza di contatto con la terra.

Erano un po’ druidi oltre che cacciatori. Mi hanno tirato su con quella che per molti oggi è una legge obsoleta, ma che comunque dove ben applicata ha dato grandi risultati. Una regolamentazione certamente piena di falle ma che non lasciava scampo: nel nostro bel Piemonte, se amavi le montagne, potevi andare a caccia, mettere radici e provare a costruire qualcosa in un luogo e in quello soltanto. Ormai forse in pochi capiscono cosa voglio dire, ma quando parlo del mio comprensorio non significa solo che lì pago una tessera, ma che quel territorio per me è come la casa: ne conosco la forma, le rocce, gli anfratti, gli alberi e la luce, gli animali, la loro evoluzione e i loro spostamenti. Proprio come a casa, all’interno dei suoi confini mi sento teneramente a mio agio: me ne curo, la spolvero, la tengo sempre fresca e sana, provvedo che la pioggia e gli eventi atmosferici non la demoliscano e che il sole non la renda eccessivamente arsa. Come nella mia tana mi sento libero di muovermi, chiuso in un invisibile perimetro che è marcato con il mio stesso odore, che i miei occhi riconoscono senza che la testa debba per forza pensarci. Lassù io posso andare in giro con la nebbia e la tempesta senza provare timore. Una via di ritorno la troverò sempre. E strada facendo forse incontrerò un camoscio che mi verrà da chiamar per nome.

Il mio comprensorio è il luogo che amo e in cui vorrei vivere ed è l’unico posto al mondo in cui io desideri andare a caccia perché soltanto là il boato del mio fucile ha un senso. Altrove posso andare ad addestrare il cane, posso scarpinare, fare fotografie e alpinismo. In tutte le valli alpine posso sentirmi serenamente turista, ma in un solo posto sono davvero cacciatore. Un legame tra uomo e terra che è fecondo, l’unico che riesca a dare veramente frutti. Sono questi lacci invisibili che mi spingono ad alzarmi la mattina presto per andare a contare gli animali, partecipando a più censimenti che uscite di caccia nel corso di una stagione. E’ questo affetto che mi porta a comportarmi bene anche quando la sorveglianza venatoria è pressoché nulla.  

Oggi che questo concetto è un po’ superato qualche volta vengo assalito dalla nostalgia e mi sembra che in pochi anni tutto sia cambiato. Sento parlare di attività venatoria come sfruttamento di una risorsa e non mi sembra sbagliato, pure qualcosa mi si muove dentro. Si viaggia sull’onda di quel grande successo che sono gli ungulati: i piani di prelievo mai completati e l’imperversante presenza del capriolo in ogni cantuccio fa venir voglia di sperimentare, di cambiare, di tornare a muoversi. L’uomo che viaggia è un uomo che spende e dove c’è tanta abbondanza perché non vendere l’eccesso? La possibilità di scegliere periodi e località è uno scenario che dona senso di libertà e il mondo sembra essere ancora lì in attesa che noi lo esploriamo. Non c’è nulla di male e, dopotutto, un cacciatore con buona preparazione tecnica può inserirsi benissimo e comportarsi correttamente in un nuovo ambiente anche dopo pochissime uscite. Su questo non c’è dubbio.

Eppure io non riesco a spostarmi da queste valli e resto avvinghiato ai faggi della mia terra, come se io stesso avessi messo radici che non riesco più ad estirpare. Perché sento che di questo c’è davvero bisogno: di affetto e non di mobilità. Il sudore dell’uomo è il seme che rende fertile una valle ed essa fiorisce grazie al lavoro delle sue braccia, alla fatica del suo intelletto e sotto il suo attento sguardo di sentinella. Un legame unico tra il cacciatore e la sua terra che non deve tornare a perdersi.

Oggi c’è abbondanza, ma se un giorno quest’epoca d’oro dovesse esaurirsi, io non potrei far altro che rimanere dove sono, continuando a contare gli animali e, quando necessario, ad allontanare il dito dal grilletto, imponendomi il santo senso del limite che un montanaro non può ignorare. Quei druidi che in epoca di carestia non si erano spostati in Val di Susa, dove già al tempo i grandi cervi erano numerosi come conchiglie sulla spiaggia, che erano rimasti a centellinarsi pochi camosci, condividendosi gli abbattimenti e consumando gli scarponi sulle rocce delle montagne più ripide, mi hanno insegnato a pensare così: al centro del mio pensiero c’è la tutela e il potenziamento della fauna selvatica, non lo sfruttamento di una risorsa. Vadano pure gli altri a cercare i loro carnieri dove lo ritengono più opportuno. Secondo me non è una mentalità che può dare buoni frutti.

Marco Sartori.

 

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