Dubbi e ansietà
- Scritto da Marco Sartori
- Dimensione font Riduci dimensione font Aumenta dimensione font
Volevo scrivere un bel pezzo.
Pregustavo da qualche settimana l’idea di sedermi davanti al computer per mettere giù qualcosa di entusiasmante, appagante e, perché no, dall’alto valore letterario.
Le letture di questi ultimi tempi mi ispiravano, le discussioni nate durante recenti incontri mi stimolavano. Quanto è bello parlar di caccia e quante cose ci sono da dire quando ci si ritrova tra amici!
E poi…
E poi ancora una volta lo sconforto. Niente paura, la mia non è depressione. Dire che sono contrariato sarebbe usare il termine più appropriato: cammino con il cuore schiacciato da una montagna di sensazioni discordanti, con un groppo in gola che non va su e neanche giù.
Tutto è nato qualche giorno fa, mentre trascorrevo una serena domenica con mia figlia e i suoi compagni di scuola in un noto parco avventura della Val di Susa. Con i bambini abbarbicati sugli alberi come cuccioli di orango, appesi a funi d’acciaio e assicurati con moschettoni da alpinismo, a noi genitori, superato il primo spasmo di apprensione, è rimasto ben poco da fare se non fondere le fotocamere dei cellulari per immortalare i nostri novelli spiderman, scambiando quattro chiacchiere. Discorsi banali che andavano dall’annata scolastica ormai agli sgoccioli alla mancanza di neve sulle cime delle montagne. Come si suole dire, il classico del più e del meno.
Ero giusto seduto all’ombra su di una panchetta di larice, pregustando il panino al salame che mi attendeva in macchina e ammirando quella vallata in cui tanti anni prima avevo fatto il servizio militare, quando un altro papà, tranquillo e beato, si siede accanto a me e comincia a parlarmi di caccia. Proprio così, di caccia! Io, come sempre, approccio l’argomento in maniera vaga (non sapendo fino a che punto sarà in grado di capirmi) e poi mi sciolgo un po’. Scopro che lui non è cacciatore, ma che è figlio di un cacciatore e che nella sua famiglia tutti vanno a caccia. Comincia a parlarmi di calibri, di camosci e di zone che conosco bene. Racconta belle storie con notevole spigliatezza e mi sorprendo addirittura di non aver mai incontrato queste persone con cui condivido tanti interessi e che abitano da sempre nel mio stesso paese. Mi sembra si stia istaurando un legame. Ecco, proprio così: un legame.
Ad un certo punto comincia persino ad elogiare la genuinità della carne di selvatico e mi spiega che loro non vanno quasi più in macelleria, consumando quasi esclusivamente ciò che procurano durante il periodo del cinghiale con la squadra e anche con i capi presi in selezione. Di bene in meglio.
L’incanto si spezza all’improvviso. Mi sta parlando di come lui stesso sappia preparare a dovere la carne e di come le ultime stagioni di caccia del padre siano state molto proficue, quando salta fuori la frase: “I primi due caprioli li ha segnati, poi… sai com’è?”
Io lo guardo serio. Lui sorride, è molto tranquillo, come se parlasse di cose che succedono abitualmente.
“Non lo so” rispondo. “Com’è?”
Fa spallucce.
“Così… normale, no? I primi due li segni sul tesserino. Sai che devi anche farli controllare a un tecnico? Dopo, dai… Ce ne sono tanti di caprioli e noi siamo in tanti a mangiare.”
A quel punto il mio cervello è già spento. Non ascolto più.
Sento ancora qualche riferimento al fatto che i caprioli rovinano i cani da cinghiale. Storie già sentite altre volte. Non mi interessa. Mi alzo e mi allontano.
Lui non ne sa nulla e probabilmente non capirebbe le mie rimostranze. Non è un cacciatore e anzi, è un amico dei cacciatori. Uno che voterebbe per noi! Un sostegno pieno. Mi ingozzo di amarezza e sento che rimane là incastrata in gola.
Allora, da dove cominciare per tentare di tirare le fila del discorso e provare a spiegare il mio sconforto, i miei dubbi e le mie perplessità?
Questo, purtroppo anche questo è il mondo della caccia e in tutta franchezza questa consapevolezza mi suscita ben poca simpatia. Ancor meno poesia. Mi passa la voglia di scrivere, di ragionare e anche quella di impegnarmi, mettendoci la faccia. Per chi lo dovrei fare? Per gente di questo tipo? Beceri, cinici sparatori e canari che riconoscono all’animale selvatico la stessa dignità che riescono a vedere in una testa di cicoria. Uomini che ritengono la fauna a proprio uso e consumo dal momento che, in fondo, hanno pagato e dunque si ritengono in diritto di prendere. Prendere, non prelevare. Tesserati ardenti, pronti all’occorrenza anche a scendere in piazza, armati di forconi, per difendere la sacralità dell’antico mondo della caccia. Anche questi sono i cacciatori e non riesco a fare a meno di pensarci ogni volta che qualcuno mi chiede se ho voglia di fare qualcosa nell’ambito delle associazioni.
Questi sono anche una parte di noi.
Recentemente leggevo un articolo molto interessante di Michele Serra in risposta alla lettera di un animalista e mi hanno lasciato perplesso i commenti negativi che qualche cacciatore ha rivolto al giornalista per aver riconosciuto nel suo testo dei meriti al movimento animalista. Sembrerebbe che all’animalismo non si debba fare sconti e che sia meglio metterlo al bando come piaga della nostra società, anziché tentar di stendere la mano.
Non commento, ma nemmeno mi sento di sottoscrivere questa posizione. Se l’animalismo è un male assoluto per l’uomo e per la natura, che cosa siamo noi?
Con qualche animalista (non con tutti) io riesco a parlare, soprattutto se tra me il mio interlocutore non si frappone uno schermo e una tastiera; con qualcuno posso persino intavolare discussioni stimolanti. Legarmi e provare a crescere insieme, se ce n’è la volontà. Con certi cacciatori no, mi spiace.
E si badi bene che non sono un integralista: non metto in croce nessuno per un errore, nemmeno se commesso per sbadataggine. Siamo uomini e non computer.
È il malcostume diffuso che mi fa veramente arrabbiare: quell’abitudine talmente radicata di aver comportamenti sbagliati, che si arriva addirittura a farlo in buona fede, senza sentirsi in colpa. Il malcostume è molto peggio dell’ignoranza e chi si definisce cacciatore ha il dovere morale di elevarsi al di sopra di certe dinamiche.
Quanti lo fanno e quanti hanno anche solo l’intenzione di farlo davvero? Quanti personaggi zoppicanti invece conosciamo? Siamo sinceri. Teoria, gestione faunistica, etica venatoria, rispetto, tradizione: sono belle parole, che ci fanno battere il cuore, di cui amiamo riempire l’aria che ci circonda, quasi fossero uno scudo potente contro le accuse che ci muovono. Un incantesimo protettivo. Ma poi hanno lo stesso valore per tutti?
Il mondo dei cacciatori è ampio, vario e complesso; è quello dentro cui sono nato, ma ci sono momenti in cui non sento di farne parte.
Marco Sartori