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Mauro Corona - Come sasso nella corrente

Mauro Corona - Come sasso nella corrente

Mi leggete da anni, molti di voi scrivono al mio indirizzo di posta elettronica e di alcuni sono divenuto amico, sapete sono uno schietto cui non piacciono i compromessi né le imposizioni e parlo solo e sempre di ciò che conosco e merita d’esser narrato o citato.

In questo pezzo voglio parlarvi di una persona divenuta personaggio e ritornata agli antipodi, un uomo, uno scrittore, un amico. Una figura che non mi era simpatica perché ritenevo, dopo aver sentito alcune sue dichiarazioni circa la nostra passione, avesse rinnegato la propria "fede" nel nome di qualche copia o per asservire i pretenziosi pseudo ambientalisti che popolano il piccolo schermo e scarabocchiano sulla carta stampata o sbraitano dalle stazioni radio.

Tempo dopo l’ascolto di questa apostasia mi imbattei casualmente (spesso la casualità porta a grandi scoperte, vedasi la penicillina) in un’intervista integrale che lo stesso rilasciava alla trasmissione Terra; essa era orale e quindi agevolmente fruibile e palesemente reale, perciò l’ascoltai per sentire altre stupidaggini e vedere gli occhi di colui che le pronunciava.

Vidi, udii e compresi che l’uomo smanicato atto ad imprimere l’impronta dei suoi scarponi in una neve candida, rispondeva all’intervistatore che gli chiedeva della Caccia e del legame ch’egli aveva con essa e constatai insindacabilmente che le dichiarazioni che me lo resero antipatico erano uno strappo di un discorso che nel suo complesso voleva dire esattamente il contrario; la solita strategia dei vigliacchi che non parlano mai né si espongono in prima persona ma lo fanno utilizzando l’immagine ed il pensiero di qualcuno di importante o con un grande seguito, facendolo inconsapevole alleato e mettendogli in bocca o sulla punta della penna frasi mai pronunciate frutto di taglia e cuci idoneo a creare un arazzo completamente diverso da quello tessuto spontaneamente dall’"artigiano" intervistato.

Conobbi accidentalmente Mauro Corona in un luogo di Caccia, ognuno lì per i suoi motivi e ragioni che nulla avevano a che vedere con l’altro né possedevano somiglianza.

Ci guardammo come due cani che si scrutano per capire se attaccar briga e mordersi, segnare reciprocamente il terreno ed andarsene ognuno per la sua o bighellonare assieme in un pomeriggio di tarda primavera.

Ci "annusammo" comprendendo che eravamo due cani da caccia, lui un cane da ferma per Forcelli e Cedroni ed io, lo sapete, un segugio da Cinghiali.

Sedemmo allo stesso tavolo di un bar con altre persone, ordinammo una bionda e ci estraniammo parlando del male comune che affligge tutti noi cacciatori, discorremmo di tipi di caccia, d’animali, armi ed avventure venatorie capitate ad entrambi, commentando le immagini che serbo nella mia macchina fotografica e che voi avete già visto pubblicate su questa rivista.

"Ehi, Icio - al secolo Maurizio Protti - (inseparabile e fraterno amico di Mauro, indispensabile factotum, una specie di Sancho Panza per Don Chisciotte, John Watson per Sherlock Holmes o, per stare in tempi men vetusti, Kit Carson per Tex Willer), guarda che bestie, se ti corrono dietro hai poco da scappare!" disse mostrandogli l’immagine di un grosso verro sul cui muso erano innestate due baionette d’avorio consumato e affilato, immortalate dalla mia Canon.

"Guarda che roba, che bestie!" commentò scorrendo le foto che si susseguivano lentamente, soffermandosi ad ognuna ed aspettando che gli parlassi del panorama, del cinghiale o dei cani che stava guardando.

La meridiana vide cambiare l’angolazione dell’ombra, trascorremmo due ore come vecchi compari, narrando il proprio ed ascoltando l’altrui racconto.

Una presentazione l’attendeva già da tempo, una piazza gremita ed accaldata l’aspettava, ci alzammo, barattammo i nostri recapiti telefonici e ci stringemmo la mano come due uomini, due cacciatori; non scattammo foto insieme né reciproche, eravamo due esseri dei boschi incontratisi su una montagna un giorno di fine Maggio.

Recensione di "Come sasso nella Corrente"

La sua esistenza è stata un continuo tentativo di drizzarsi verso il cielo ed il futuro come una neonata quercia, arduo ed immane sforzo perché battuto e percosso da uno zefiro perenne che, spesso e senza ragione alcuna né palese avvisaglia, si trasformava nella furia di uragano spinta ed

invogliata da un Dio punitore.

Due piccole foglie serravano le esili manine attorno al suo fusto acerbo, bisognose di quel calore solare che, pur essendone anch’esso privo, cercava di trasmettere suddividendo con essi la propria linfa vitale.

Storto ma cresciuto forte, con imperturbabile corteccia rugosa come avesse il doppio degli anelli a scandirne le stagioni scorse, intraprese un viaggio di riscossione arrampicandosi da prima come un gatto per "sfuggire" a quel cane molesto ch’era la vita priva di sentimento ed apprezzamento, su quel "palo della cuccagna" che prometteva poco ma più di quanto osasse chiedere poi, compreso che la lontananza da terra era sollievo dal dolore, cominciò a scalare le montagne come fossero il mezzo o l’ostacolo per raggiungere tutto ciò che gli era stato anzitempo ed ingiustamente sottratto da quella vita costituita da silenzi, costrizioni ed abbandoni.

Mise il capo delle più alte cime sotto i propri piedi, respirando l’aria pulita che in pochi avevano sorseggiato; saliva con il suo passo, incurante di tutto quello che sotto restava.

Sull’ultimo declivio s’accorse d’esser più solo di prima, notò che nessuno reggeva quell’incedere frenetico e famelico e tutti coloro che gli volevano bene erano rimasti alla base delle sue piramidi di roccia non comprendendo perché, cercando di colmare il vuoto che lo devastava, avesse abbandonato anche gli unici che gli erano sempre stati vicini.

Lassù ove regna il silenzio e si è più vicini a quel Dio che non aveva mai capito, lontano da uomini e animali, comprese che la montagna più alta non era su questa Terra ma nel suo spirito, una giogaia generata dai sedimenti dei mille torti patiti ed altrettanti inferti, dai lustri d’interiore solitudine e dal vuoto di tutto quello che non era preparato a ricevere ed aveva scacciato pur desiderandolo; di questa non è ai piedi ma all’apogeo.

Dopo decine di faticose salite si trova ad affrontare una discesa, la più ripida che gli sia mai capitata, piena e disseminata di trappole insidiose espresse in ciottoli mal serrati, bastoni occultati da foglie, lapidi cosparse di verde scivoloso muschio, anfratti coperti da fresca neve, lastre di  ghiaccio e forre dalle fauci spietate ed aguzze.

Questo declivio sarà da compiere con la massima attenzione e nel più criptico silenzio per evitare che la valanga delle cose da cancellare e dimenticare si svegli accorgendosi della sua intenzione e si scateni in un forsennato inseguimento per raggiungerlo prima che arrivi alla meta e si conceda quella pace che mai ha trovato, sempre intento a cercare qualcosa, la stessa per tutta la vita.

La cercava intagliando, sottraendo al legno il superfluo, entrando nel midollo come un picchio dal fare incessante, scavando il marmo come una talpa con artigli d’acciaio o nel fondo di ogni bottiglia e fiasco, celato tra quel liquido che, al pari della benzina, contribuiva ad alimentare il fuoco che gli divora l’anima; la stessa fiamma nel quale arroventarono il marchio di dolore cui era stato segnato ancora infante.

Scavava, assorbiva e scalava per uscire da quel buio cui era stato relegato, carcerato ingiustamente come il Conte di Montecristo, in cerca di quella luce che non riesce a trovare e di cui non conosce dimora, rincorrendola tra gli elementi della vita (Acqua – Cielo e Terra) per placare l’unico di cui  abbonda ed è pervaso.

Mauro Corona è come un coltello senza guardia con manico d’ulivo e lama forgiata nella fucina del dolore, compresso tra il maglio del futuro e l’incudine del passato, temprato dal calore erubescente delle difficoltà nel freddo siderale della solitudine di un’anima raminga che non trova il giusto alloggiamento se non per brevi periodi d’eclissi in cui il vecchio ed il bambino si tengono per mano, l’alba ed il tramonto si scambiano carezze, Selene ed Apollo giacciono soavi; un tunnel che attraverso la montagna dell’esistenza tenta di unire le due metà complesse di quest’essere infelice.

Pochi passi di ferrite separano i capocantiere delle due "fazioni", poco tempo manca alla fine dei lavori e alla stretta di mano tra la piccina, tremula e sincera di Mauro e quella callosa, vigorosa ed irriconoscente di Corona; con essa s’avrà l’apertura del budello che permetterà ai "residui tossici" di andarsene dalla sua "Valle" lasciandolo libero di vivere come rapace e librarsi sugli altipiani tra le spire delle correnti, guardando il Mondo e chi lo occupa non con supponenza ma con attenzione, scindendo i veri "nocivi" dai buoni animali che popolano il bosco della vita.

Confessione

"Quand’ero bambino, mio padre mi portava a caccia con lui. D’autunno s’andava a camosci e caprioli, d’inverno con le fiale di cianuro tendevamo a martore e volpi che lui chiamava ‘i nocivi’.

"Nocivi a chi?", mi chiedo oggi. Quelle timide presenze, quasi sempre furtive e discrete, batuffoli leggeri sulla neve, non nuocevano a nessuno. A primavera, invece, nei mesi di aprile e maggio, andavamo a galli forcelli. In questa dolce stagione i maschi vivono il periodo degli amori ed è quindi facile avvicinarli e colpirli. Quando il giorno era già pieno ci calavamo nel bosco per accendere il fuoco. Mio padre era un mago in questa operazione. Affermava che bisognava essere capaci di accendere un fuoco anche sulla neve. Andava a rovistare sotto giganteschi pini, intrufolandosi tra la neve e i rami come un topo, e ne usciva con un pugno di stecchini bianchi non più grandi di un fiammifero. Poi tornava ancora con due pezzettini più consistenti. Tutto veniva disposto con ordine: sotto i più sottili, quasi dei fili di legno, poi quelli medi e via via quelli più grossi. Nella costruzione a castello lasciava aperto un buco per infilarci la carta. Poi dalla giacca ‘cacciatora’ tirava fuori un giornale e ne strappava solo un lembo. "Mai sprecare!", diceva. La sua giacca di fustagno scuro era un magazzino: spago carta temperino cartucce binocolo formaggio pane, tutto stava lì dentro".

L’intervista "Ho ucciso il primo Camoscio quando avevo nove anni e fui iniziato bevendo il sangue dell’animale, subito mi sembrava abominevole ma poi ne compresi il significato, mi ricordo che a diciotto anni lo feci bere ad un uomo di quaranta, iniziandolo al suo primo Camoscio.

Ricordo che la parte migliore, il filetto, andava sempre a finire al prete o al medico… di cui potevi aver bisogno mentre fegato cuori e polmoni venivano mangiati direttamente sul posto.

A me la caccia è rimasta nel D.N.A., non vado più ma… quando viene la stagione, in primavera, se mi trovassi in una radura con il fucile e alla vista di un forcello sono sicuro sparerei perché la caccia ti rimane nel sangue.

Prelevare è giusto!

Qui migliaia di camosci stanno morendo di rogna perché non hanno voluto eseguire nessun prelievo [di questo parlammo personalmente anche quel famoso giorno in cui c’incontrammo].

Quelli contro la caccia perché non lo sono anche con i popoli "primordiali" come quello dell’Amazzonia?

La caccia è una pratica che esiste da sempre come coltivare i campi.

Per essere coerenti non si dovrebbe mangiare più nulla, è stato constatato da scienziati Giapponesi che, anche l’insalata, se viene strappata, soffre.

Perché non si discute anche della pesca?"

Frase Propagandistica estrapolata dal contesto ed usata a proprio interesse: "La caccia di oggi non l’approvo perché sparano dai Suv con fucili che tirano ad un chilometro di distanza e, dell’animale, buttano tutto tranne il trofeo"!

"La caccia non la pratico più ma l’ho nel sangue, rinnegarla sarebbe come rinnegare un figlio"!

Corona Bracconiere

Qualcuno dirà che era un bracconiere e non un cacciatore, molti si chiederanno perché io li ho sempre detestati ed ora parlo di loro, così, prima mi venga posta la domanda, sono ad offrirvi la risposta: Chi ha scarpe logore, vestiti tramandati dai parenti e che a sua volta traghetterà ai fratelli man mano ch’essi cresceranno, si ciba esclusivamente di ciò che caccia e raccoglie dalla terra o dagli alberi che sulla stessa crescono l’indispensabile per sopravvivere in una vita grama, non è un bracconiere ma un cacciatore più vero di quanti s’addobbino come tale, credano d’esserlo e poi non conoscano nulla della preda che predano o dell’arte che praticano per passatempo né dell’etica che alla caccia s’accompagna.

Per me un bracconiere è uno che oggi (anche se ci stiamo avvicinando a grandi falcate, la fame da noi non è ancora così mordente) monta venti fari sul suo cazzo di gippone e, sventrando campi altrui, insegue animali che appartengono a tutti, veri cacciatori compresi, inebriandoli di luce nelcbuio della notte.

Bracconiere è uno che aspetta un cinghiale appollaiato su una pianta per il gusto di andare al bar a raccontare a quattro idioti la sua bravata, colui che utilizza il G.P.S. ipertecnologico, attaccato al collare dei cani, per correre davanti al cinghiale ed alle poste, essere sempre presente quando ilcverro si fa abbaiare a fermo e altri trucchetti del genere.

Bracconieri ve ne sono tanti, purtroppo, e di disparate categorie ma, sicuramente tra essi non rientra l’uomo affamato che cerca di mettere a tacere i sette stomaci brontolanti che dimorano sotto il suo tetto e si scaldano con il medesimo fuoco.

Come Sasso nella Corrente, la storia di quest’uomo dei boschi!

www.michelebottazzi.it

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