Venti metri sopra il Paradiso
- Scritto da Cacciando
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L’istinto della caccia è cosa strana. Non mi è chiaro affatto, eppure lo vivo da sempre, da molto prima di essere cacciatore come la legge ti autorizza. E c'è anche da comprendere che mai potrà essere chiaro in tanti benpensanti che ci avversano, non avendocelo dentro. Ma questo è un altro problema, molto più loro che mio. Una cosa che mi affascina, però, mi è chiara: la dimensione temporale del "fatto venatorio" dato che l’uomo, da tempo immemore, si prodiga per dar sfogo a questo sua avere dentro la sana "droga" della caccia.
Dapprima per soddisfare la richiesta proteica ed oggi, nell’epoca ove tutti corrono e corrono e credono di sapere e di poter giudicare, per poter godere ancora della benefica azione di endorfine sempre più difficili a prodursi. E alla fine è la stessa cosa, entrambe sono essenziali per l’uomo. E proprio per percepire ancora il loro effetto, ormai sempre più contrastato dallo stress quotidiano dell'attività professionale, ho accettato un invito di amici per una caccia che mi era sconosciuta, quella dal palco alle palombe.
Sì, uso il termine palomba perché se un compaesano di San Francesco la chiama colombaccio innesca in automatico un’offesa alla tradizione; finanche il nonno del nonno l’ha chiamata palomba ed io oggi caccio perché l’antenato ha fortemente voluto trasmettere la tradizione alla sua discendenza, riconoscendo alla stessa la possibilità di ricevere in eredità emozioni ineguagliate, dello stesso valore del misero capitale accumulato in una vita di ristrettezze.
Palombe, quindi, erano i selvatici che mi aspettavo di cacciare in un assolato dì ottobrino nell’appostamento in vetta all’Appennino marchigiano. Questo era il semplice e gradito regalo che gli amici volevamo farmi, ben sapendo che tale invito sarebbe risultato per me una salita in paradiso.
La mia caccia abituale è purtroppo realizzata in un ambiente che, pur agreste, ha subito la devastazione sistematica delle macchine agricole e solo pochi lembi selvaggi hanno resistito, recuperando tenacemente centimetri in flora spontanea e biodiversità ogni volta che il trattorista disattento non si esalta nella gestione della geometria degli appezzamenti agrari. E' poca cosa, eppure quando vedo un rovo che si batte per proiettarsi un po’ più in là la cosa mi riempie il cuore, perché la tenacia della natura deve essere premiata!
In questo ambiente, assieme ai miei amati setter, insidio fagiani immessi alcuni mesi prima che considero selvatici solo perché da un po’ di tempo si sono dimenticati il sapore del mangime, ma forse loro stessi non sanno di esserlo.
In ogni caso non ritengo di essere un cacciatore di serie B solo perché lo è la pseudo-selvaggina che incontro; sono un cacciatore comunque, che si confronta con la difficoltà quotidiana della cattura seria ed etica.
L’invito alle palombe mi ha perciò un po' spiazzato, non ero preparato ai riti, all’arma più logica da utilizzare, alla munizione più adeguata, al modo di tirare. Tutti elementi sconosciuti che mi hanno lasciato con lo sguardo assente di fronte all’armadietto di armi e cartucce finché, giunta la tarda ora, ho deciso: calibro 16 per l’antica tradizione degli antenati e calibro 16 sia!
Sul luogo, molto prima dell'alba, c'erano ad aspettarmi gli amici e la luna, che già prometteva di lasciare al sole la più bella mattinata degli ultimi tempi. Salutato il nutrito gruppo del sodalizio "I Cappelloni", il mio ospite, inerpicandosi su uno scosceso dirupo, mi ha guidato fin sotto uno dei secolari faggi in cima al quale, completamente nascosto alla vista, c'era il capanno. Unico indizio della presenza assidua dell'uomo in quella fantastica faggeta alcune scale lunghissime che da terra s'inerpicavano sino in mezzo ad immense chiome.
Seguendo Claudio in una di queste, ho iniziato affannato a salire e quella scena mi ricordava i trascorsi militari, quando ci si esercitava a scalare pareti con 30 kg di attrezzature addosso. Venti metri di scala iniziati con entusiasmo e terminati col fiato corto entrando a carponi nell'angusto accesso al capanno aereo. Qui, sentitomi di nuovo saldo e sicuro, mi sono rialzato per assaporare l'altezza, ma la ricerca di questa percezione è stata spazzata via dalla visione che mi si è prospettata. Ero in un anfiteatro immenso, una corona di monti mi circondava quasi completamente e l'unico lato parzialmente libero era l'accesso scavato dal torrente che dall'Appennino scende sino all'Adriatico. Una moltitudine di colori e di sfumature, che dal verde intenso delle abetaie arrivavano sino all'ocra pallido della faggeta, mi circondava dandomi la sensazione di essere caduto nella tavolozza pasticciata di un pittore. Uno spettacolo naturale irripetibile, a cui la lucente sfera del sole crescente regalava sfumature che risulta impossibile narrare, ma che per fortuna sono note ai molti che, per ragioni venatorie e in tanti ambienti diversi, hanno la fortuna di attendere l'albeggiare seduti a contemplare le bellezze del creato. La pressante e a volte farneticante vita moderna ci nega queste sensazioni e forse i cacciatori sono rimasti gli unici a goderle in piena serenità.
Là, in cima a quel faggio, per la prima volta mi sono sentito venti metri sopra il paradiso!!
Per me era la prima volta, ma l'abitudine alla frequentazione di quel posto non annacqua certe sensazioni dato che Claudio mi dice che anche a stagione venatoria terminata corre quassù e sta ore con lo sguardo perso nel panorama che lo circonda perché .... questo è un immenso quadro che cambia colore ogni giorno!!
Ma d'un tratto quel quadro così silenzioso, leggermente sferzato da una carezzante brezza, diventa protagonista della mia giornata. La mia abituale caccia solitaria è già un lontano ricordo; qui gli allerta si rincorrono, i volantini si lanciano nelle valli sottostanti, d'un tratto le chiome si animano e spari si uniscono a indicazioni urlate a squarciagola e grida di esaltazione. E' il momento magico del passaggio di un branco di palombe, avvistato dagli attenti occhi degli occupanti dei capanni perimetrali che, alla stessa stregua di antiche vedette, allertano tutto il sodalizio. Partono i volantini nel loro armonico lavoro di seduzione dei diffidenti migratori, si insinuano nel branco e lo guidano sulla caccia. A volte sono convincenti, a volte la diffidenza delle palombe è imbattibile, ma implacabili i volantini continuano nel loro volteggio continuamente allenato dagli esperti allevatori. Sì, perché qui solo l'organizzazione della caccia è il fondamento del successo venatorio. I membri del sodalizio hanno ognuno il proprio compito assegnato per le specifiche vocazioni personali, chi per i volantini, chi per gli zimbelli, che da queste parti chiamano "palpi", chi per il comando di fuoco e, dulcis in fundo, chi per la cucina.
La buona cucina è fondamentale in una caccia sociale perché il pranzo è il cemento dello stare insieme. Qui si parla, ci si sfotte, si danno indicazioni e suggerimenti; questo è il luogo della socialità, mentre il capanno è il luogo dove si è soli nell'immenso.
La mia giornata con gli amici finisce come era iniziata, con il buio e con la luna che mi accompagna di nuovo in Umbria, ma sono un uomo felice e molto più ricco della mia partenza mattutina. Ricco di quei valori e sensazioni che molti non avranno mai e che non sanno nemmeno che si possono avere. E la mente corre di nuovo ai benpensanti che ci avversano e il non potersi godere gli spettacoli naturali che ho vissuto io e che non hanno prezzo è sempre di più un problema loro e sempre meno mio.
Quando hai il privilegio di vivere giornate così te le serbi nel cuore e non hai voglia nemmeno di raccontarle ad altri, ti accorgi quasi di esserne geloso, e tanto comunque molti non potrebbero capire....