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La capra del vallone

Poteva sembrare una sera come tante su alla baita; il fuoco scoppiettava nel camino e le fiamme si riflettevano negli occhi del cacciatore seduto davanti al fuoco. La cagnetta riposava tranquilla lì accanto mentre lui le accarezzava la testa. Fuori l’aria era fredda, carica di nevischio, mandato con un soffio di vento giù dalle vette che circondavano la baita. Erano segnali inequivocabili per chi era cresciuto nell’ambiente montano e non c’erano dubbi. L’autunno stava cedendo il passo all’inverno, il vecchio signore che di lì a poco avrebbe imbiancato i paesaggi, purificando con quella neve candida tutto il grigiore del mondo, ormai caotico, rumoroso e troppo lontano dalla natura umana. Mentre i pensieri scorrevano, l’uomo si accorse che il fuoco stava diminuendo il suo volume e le uniche luci rimaste ad illuminare la stanzetta erano quella della brace, assieme allo spettro dei raggi lunari che facevano capolino dalla finestra. Il volto del cacciatore era quasi in penombra, si intravedevano appena i suoi lineamenti essenziali, un viso modellato dal vento, dal sole e dal gelo della montagna nel corso degli anni. Diede un occhiata fuori dalla finestra e capì che era arrivato il momento atteso da tempo.
La notte l’aveva passata a pensare e meditare; dormire sarebbe stato inutile, quel turbinio di sensazioni che si portava dentro gliel’avrebbe impedito. "Meglio prepararsi, l’alba tutto sommato non è poi così lontana" pensò. E poi guai arrivare in ritardo all’appuntamento, avrebbe rovinato tutto e quell’attesa sarebbe stata vana.        
Con uno slancio si alzò dalla seggiola in vimini intrecciati e si recò nell’altra stanza per dare un’occhiata all’attrezzatura. La carabina era appoggiata alla panca di pino, l’ alpenstock in piedi accanto alla porta e lo zaino appeso per uno spallaccio allo schienale della sedia. Al suo interno lo stretto necessario: binocolo, spéktive, telemetro, corda, acqua, il coltello ben affilato e una mantella anti pioggia per ogni evenienza. Andò a mettere la caffettiera sul gas, poi calzò gli scarponi ben ingrassati e diede loro una bella stretta tirando i lacci con decisione; si mise la giacca invernale e il berretto.
Il caffè in un attimo fu pronto, fumante nella tazza; appena si freddò un poco lo bevette in due sorsi, inframmezzati da una fetta di pane casereccio con un po’ di marmellata. Ora aveva il calore e l’energia necessari per partire; si mise lo zaino e carabina in spalla, prese l’alpenstock ed uscì. Quando aprì la porta, la cagnetta ebbe un sussulto, capì perfettamente cosa stava accadendo, ma oggi non toccava a lei e lo sapeva. Era un segugio e, per quanto fosse abile, non serviva per cacciare camosci: quel giorno si trattava di una partita personale. La porta si chiuse lasciando fuori il freddo e il cane, sospirando, tornò apparentemente a dormire. Mancavano due ore esatte all’alba e un’ora e mezza di cammino fino alla cresta sopra al vallone, dove la Capra aveva ormai eletto come sua fissa dimora quegli strapiombi circondati da pietraie, dalle quali spuntavano licheni e ciuffi d’erba sparsi qua e là: preziose fonti di sostentamento per superare l’ormai prossimo riposo invernale.
   Erano tre stagioni che quell’animale lo faceva penare, la vedeva ogni volta e non riusciva ad avvicinarla, era sempre fuori tiro o in punti irraggiungibili. A volte proprio non c’era, salvo per ricomparire quando lui, di ritorno, era quasi alla baita. Era furba, molto furba, per quello era diventata così vecchia. Avrà avuto sedici o diciassette anni: così il cacciatore ne aveva stimato l’età guardandola nel lungo. Non prolificava ormai da anni, il mantello era chiaro, la testa veniva portata bassa e la parte ventrale era più prominente rispetto a quella anteriore. La mascherina del muso quasi non si distingueva più da quanto si era schiarita. Le corna erano sottili, con l’uncinatura non eccessiva, ma l’apertura era notevole e la lunghezza superava di molto l’altezza delle orecchie. A lui non interessavano particolarmente i trofei, quanto la correttezza del tiro e la forma della caccia di per sé. Tuttavia quell’animale era in un certo senso entrato nella sua vita, ci pensava continuamente e, il fatto che fosse così difficile da prendere, aumentava in lui la voglia di cacciarla: era diventata quasi una sfida.
   Intanto, mentre saliva lungo il crinale, veniva accarezzato da una brezza fredda e nel buio gli elementi naturali lo accompagnavano giocando tra di loro. Si intravedeva bene il piccolo sentiero illuminato dalla luna, mentre una moltitudine di occhi nascosti lo osservava: gufi, civette, volpi, faine e altri animali spiavano vigili il suo incedere. Il suo respiro era un tutt’uno col battito del cuore e la temperatura corporea ottimale: mai come in quel momento si sentì davvero libero e vivo. Alzando gli occhi al cielo, vide che la notte stava facendo posto al giorno e decise così di accelerare il passo, per consumare gli ultimi metri di dislivello prima che spuntasse il sole. Mancava poco per arrivare al grande masso che mille volte gli aveva offerto riparo e protezione dalle intemperie.
Una volta al suo cospetto, si sistemò: zaino a terra con carabina appoggiata sopra, spéktive a lato e binocolo al collo. Ora gli bastava attendere l’evolversi degli eventi; approfittò del lieve anticipo per riposarsi un poco. In quei momenti antecedenti l’alba, il tempo sembrava fermarsi, erano attimi che duravano un’eternità. Il cielo, che pareva una tela di velluto nero, rimase scuro ancora per un poco, poi il chiaro giunse rapido e in un attimo ci fu luce a sufficienza per iniziare a binocolare. Mentre caricava la carabina, vide i primi camosci che si alzavano sgranchendosi le gambe prima di iniziare il pascolo. Più in alto, degli stambecchi strappavano avidamente i licheni dalle rocce, in equilibrio su picchi vertiginosi da far paura solo a guardarli. E’ qui che l’uomo si accorse che non avrebbe mai potuto giocare una partita alla pari con quei meravigliosi selvatici. Conosceva le montagne come le sue tasche poiché era un abile scalatore, arrampicava fin da bambino, ma non avrebbe mai fatto veramente parte di quell’ambiente: erano loro gli unici veri signori della montagna. Sopra la sua testa un gruppetto di gracchi si faceva trasportare leggero dal vento, in una danza delicata. Giocavano con le correnti ascensionali e comunicavano con dei morbidi "cra" che echeggiavano lungo la vallata. Tenevano compagnia al cacciatore, rendendone piacevole il cammino e facendogli da guide silenziose e discrete.
   Era chiaro ormai da un po’ e, ogni parte dell’anfiteatro che lo circondava, venne scandagliata e osservata minuziosamente col suo vecchio, ma affidabile, 8x30 coi prismi di porro; l’aveva ereditato dal nonno, come la passione per la caccia d’altronde.
Di camosci ce n’erano molti. Maschi solitari sparsi, altri più giovani sui 3-4 anni con qualche yearling che li seguiva in modo spavaldo e curioso, femmine coi relativi capretti e una giovane asciutta sui due anni. Ma della vecchia camoscia nemmeno l’ombra, eppure l’aveva sempre vista in quelle zone, ogni volta. Il cacciatore iniziò ad avere dei dubbi: "Mi avrà visto salire? Forse sospettava che cercavo proprio lei".
Ormai, erano già passate quasi due ore da quando era lì e aveva pensato sconfortato di spostarsi, ma, in quel momento, un rumore attirò la sua attenzione. Si voltò di scatto in quella direzione e vide ciò che sperava: sotto la cornice dei picchi rocciosi la Capra era comparsa come dal nulla. Il cacciatore si distese di nuovo a terra, ricontrollò bene con il lungo. Il colore del mantello si stagliava inconfondibile contro la parete, le corna lunghe e sottili facevano come da corona ad un muso esile e allungato: non c’era dubbio, era lei! Chissà da quanto si era accorta di lui e aveva pensato bene di prendere le distanze. Stava attraversando uno strapiombo, passando su un sentierino poco più largo dei suoi zoccoli. Il cacciatore esaminò la situazione in un lampo, c’era solo un punto dove poter sparare: un canalino franato che finiva in una pietraia, situato proprio al centro della parete. Se l’avesse oltrepassato, non avrebbe più potuto prenderla; quello era l’unico punto dove non si sarebbe rovinata nella caduta e dove avrebbe potuto raccoglierla più o meno agevolmente. Il telemetro segnava 237 metri, un tiro non corto, ma comunque entro il limite dei 250 metri che il cacciatore si era prefissato. Non perché non sarebbe riuscito a colpire oltre, era un ottimo tiratore, ma perché non lo trovava corretto. Gli altri cacciatori lo deridevano per questo, ma, negli anni, i fatti gli dettero sempre ragione: il colpo andava sempre a segno.
Si sistemò e la inquadrò nell’ottica, ma si accorse che nel mentre aveva appena saltato il canalino e stava per eclissarsi: era nuovamente in parete. Non avrebbe mai sparato ad un camoscio in quel punto, si sarebbe sfracellato dopo trenta metri di salto, non c’era rispetto in una cosa del genere. Rimise la sicura e sorrise: "Vecchia mia, me l’hai fatta un’altra volta". Si limitò ad avere la soddisfazione di guardarla attraverso il reticolo, poteva bastare anche così. Non sapeva se ci sarebbero state altre occasioni, ma in fondo, anche se quell’inverno la Camoscia fosse morta di vecchiaia lui non avrebbe avuto rimpianti. Sarebbe rimasta nel suo regno incontaminato, mai catturata da nessuno. Gli sarebbe andata bene anche così; era un uomo leale.
   In quell’istante, però, per uno strano gioco di destini, la Capra si voltò ad osservare ciò che accadeva sotto di lei e notò qualcosa di strano, qualcosa di conosciuto e temuto allo stesso tempo. Riconobbe la sagoma dell’uomo, ne sentì l’odore. Solo allora si rese conto di essere osservata e non prima come aveva creduto il cacciatore. C’era un intruso nel suo regno e lei non l’aveva visto. Non se l’aspettava e, con quella scarica di sassi partita sotto i suoi zoccoli, si era tradita per la prima volta nella sua esistenza. Presa dallo stupore reagì  incautamente e, anziché fiondarsi in avanti e sparire alla vista dell’uomo, si voltò e tornò sui suoi passi. Il cacciatore però, che non aveva mai smesso di seguirla nell’ottica, tolse la sicura e armò lo stecher. Nel momento in cui riattraversò il canalino, l’animale ebbe un attimo di esitazione, probabilmente capì di aver sbagliato strategia, ma non ci fu più tempo. Il reticolo era immobile, il dito strinse piano e la frustata del 7mm Rem.Mag. scosse la valletta sottostante. La KS da 162 grani si schiantò due dita dietro la spalla, attraversandole il costato dal basso verso l’alto. All’impatto, l’animale si impennò sulle zampe posteriori poi si riappoggiò su quelle davanti, come a non volersi staccare dalle sue montagne. Ma la palla aveva colpito al cuore.
Quando se ne accorse, si inchinò come mai aveva fatto e, una volta spenta, iniziò a rotolare nella pietraia sottostante. Il cacciatore era ancora incredulo, solo il bossolo vuoto estratto dalla carabina che ancora odorava di polvere combusta e la botta del rinculo sulla spalla erano la testimonianza di quello che era appena accaduto. Decise di attendere un quarto d’ora prima di recarsi sull’ anshuss, era certo dell’esito del tiro. Ne approfittò per far calmare i battiti del cuore e lasciar fluire l’adrenalina che gli scorreva dentro, poi decise di incamminarsi. La trovò la, dove le pietre lasciavano spazio all’erba. La ammirò in silenzio, le accarezzò il pelo e la sistemò con rispetto; poi ringraziò la montagna per avergli permesso di raccogliere un frutto così prezioso dalle sue pendici. Non fece foto, quasi a non voler rovinare quel momento così intimo e intenso; quelle immagini sarebbero rimaste scolpite nella sua mente per tutta la vita. Le avrebbe rese visibili agli altri solo attraverso le parole, durante i suoi innumerevoli racconti davanti al focolare.
Dopo averla eviscerata, la pulì e la sistemò nello zaino, le gambe incrociate verso l’alto e la testa reclinata con le corna agganciate nell’asola del nodo. Guardò ancora una volta verso le vette e, sistemandosi la visiera del cappello, si voltò incamminandosi verso valle. Mentre scendeva con quel peso sulla schiena, pensava al calore della baita, ai famigliari, al cane che lo aspettava: non vedeva l’ora di condividere con loro quest’avventura.
Dietro di lui, intanto, aveva iniziato a nevicare. Le sue tracce venivano coperte da una sottile patina di neve, quasi a non voler lasciar segno del suo passaggio e a far sparire le sue orme. Nello stesso modo, sparì anche lui alla vista degli abitanti delle vette, avvolto nella nebbia dal quale era apparso per seguire quell’ istinto che nessuno è in grado realmente di definire: quel fuoco ardente, quella febbre, quella passione chiamata Caccia. Forse è una cosa insita dentro di noi da tempi remoti e lontani oppure, f che cos'è la caccia in fondo?...Passione, istinto, sfida, febbre, o più semplicemente procurarsi il cibo da soli come gli avi in tempi passati, tempi più umani...Atto condannato da molti, ma comunqe privilegio di pochi...orse, è un intreccio di tutte queste cose insieme, non si sa: gesto condannato da molti, ma per sempre privilegio di pochi.
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