L'ultimo respiro
- Scritto da Cacciando
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Quella mattina di fine dicembre lasciai la mia jeep nei pressi di uno spiazzo sulla strada sterrata che, come un filo grigio su un acquarello verde, collegava la Toscana con l’Emilia Romagna. Il freddo era già pungente, e un lieve vento di tramontana faceva sì che la poca neve caduta nei giorni precedenti non avesse né il tempo né il coraggio di divenire acqua, e infiltrare i muschi o la terra marrone dell’appennino.
Valutai che fossero almeno in tre, i lupi che avevano banchettato sulla carogna di un piccolo capriolo.
Le interiora erano letteralmente sparite e anche le cosce erano state intaccate. Il resto era rimasto li, per terra, nell’attesa di un nuovo assalto per fame.
Non c’era stata lotta. Probabilmente la preda era caduta in un maledetto errore, e aveva pagato con la vita.
Le feci dei lupi m’indicavano comunque che quella non era l’alimento della loro dieta preferita. I peli di cinghiale erano ben presenti nel bolo fecale, e pensai che si trattasse di uno spuntino tra un cinghiale e l’altro.
Mi avvicinai ai resti del malcapitato e notai la vera ragione della morte del capriolo. Alla base del collo, un piccolo foro d’entrata indicava che qualcuno gli aveva sparato. Lo aveva fatto malamente, con un fuciletto di piccolo calibro, magari una carabina calibro 22, e la morte dell’animale era servita soltanto a dare, in maniera innaturale, altro cibo ai lupi. Pensai che quelle deviazioni di strada tra loro, padroni della macchia, e noi, invece del mondo, sarebbero state inadeguate per tutti.
La carne era fresca e l’animale, se aveva avuto fortuna, era morto prima dell’arrivo dei lupi. In ogni caso mi guardai un po’ intorno, non alla ricerca delle belve, ma del tizio che gli aveva sparato. Fu un atteggiamento istintivo, anche se poco dopo pensai che probabilmente quel “cacciatore” era a qualche chilometro da lì. Se avesse fermato il selvatico con l’unico colpo che avevo trovato sui resti del corpo, adesso la sua carcassa non sarebbe qui.
In ogni caso presi la carabina e la levai dalla custodia. M’incamminai lungo il sentiero che lasciava la strada sterrata e s’immetteva a pieno titolo nella macchia.
Le pestate dei cervi erano evidenti e fresche, ma di loro neanche l’ombra.
Probabilmente erano stati infastiditi dalla presenza dei lupi e avevano deciso per lidi migliori e meno pericolosi.
In fondo ad un’abetaia trovai un branchetto di daini. Tutti maschi e nessuna femmina. Dovevano essere gli “sbrancati”, quelli che mandati via dai maschi dominanti, lontano dei propri harem, si ritrovavano in una sorta di collegio all’aperto.
Alcuni esemplari del branco si fermarono proprio sul selciato e mi avrebbero dato il tempo di mirare e fare fuoco.
Non erano le mie prede e non avevo alcun’intenzione di sparare. Mi limitai a stare fermo ad osservare il lento passare del branco che, di tanto in tanto, tutto insieme, alzava la testa e cercava la mia figura. Vedevo in lontananza il movimento circolare delle orecchie che cercavano di captare tutti i suoni, per me impossibili da scorgere, del “silenzio” del bosco.
Ad un tratto tutto il branco cambiò atteggiamento e prese a rotta di collo verso il fiume.
Io andai subito a cercare con lo sguardo l’intruso, o il predatore che insidiava quel momento di pace.
E, infatti, dalla strada che avevo lasciato, due guardie forestali addette al controllo stavano venendo verso di me.
Sicuramente avevano visto i resti del capriolo, anche se per il momento non sapevo se si fossero accorti che gli era stato sparato. In ogni caso li aspettai, sicuro del fatto che la mia carabina non aveva sparato per il momento, e non avevo nulla da temere.
Infatti, la loro era più una girata che uno specifico controllo. M’informarono dei resti del capriolo e che la causa erano i lupi. Io risposi che me n’ero accorto e la conversazione terminò li. Notai che fecero ben attenzione a valutare il calibro della mia carabina, e quando ebbero verificato che era adeguato al tipo di caccia, quella di selezione, non vollero vedere altro.
Aspettai giusto il tempo che riprendessero possesso della strada, e quando sentii il rumore del motore della loro jeep, mi dileguai nella boscaglia. Trovai un insoglio dei cinghiali e poi una zona di piano nei pressi di un abetaia ad alto fusto, dove si erano rimessi un branchetto di cervi. A giudicare dalle impronte si trattava di una mezza dozzina di femmine e di un maschio. La sua pestata era imponente e sicuramente anche il suo palco di corna doveva esserlo.
Le cortecce dei pini avevano risentito di quelle corna fin proprio ad un paio di metri da terra.
Quello sarebbe stato il mio bersaglio ottimale.
Cercai di valutare il possibile tragitto che stavano tenendo, e credetti di seguire quelle tracce.
Dopo circa un’ora mi resi conto che si spostavano non appena il mio odore invadeva le loro narici e allora dovetti desistere. Mi pareva di sentire davanti a me, nella macchia e nascosti alla mia visuale, il lento trottare dell’intero branco. Valutai anche la direzione del vento e non ci furono più dubbi. Mi tenevano a distanza e si spostavano senza furia e senza timore. Pensai di fare ritorno alla macchina cercando un altro posto e un altro cervo da abbattere. Sapevo già che non sarebbe stato facile, in ogni caso volli fare un ultimo tentativo in quella zona.
Tornai nel piano gli abeti secolari, ne scelsi uno che potesse reggere il mio peso, e al tempo stesso nascondermi alla visuale di tutti.
Misi i ramponi agli scarponi, e con la cinghia che mi avrebbe legato al tronco, iniziai a salire. Alla fine il tutto non era pericoloso, magari semplicemente scomodo.
Dallo zaino levai anche un bel pezzo di sale cristallizzato e lo piazzai alla base di un abete, quasi incastrato tra le radici che affioravano in superficie.
Con questo stratagemma avrei attratto i cervi sul sale e li avrei abituati a continuare a frequentare il posto.
I cervi non arrivarono, ma la mandria di daini si.
Chissà se avevano sentito il sale o erano capitati per caso. Notai che anche loro percepivano la mia presenza, ma non riuscivano a localizzarmi. Erano nervosi e reagivano ad ogni segnale d’allarme, lanciato da uno a caso del branco, con una accenno di fuga.
Alla fine si mossero e abbandonarono il piano. Il sale era ormai del tutto consumato e i cervi non arrivavano.
Mi decisi e scesi da quel troppolo a cinque metri da terra, con la convinzione che sicuramente ci avrei riprovato.
Lasciai quel piano mettendo un bel cubetto di sale ad un’altezza da terra di circa due metri. Solo i cervi adulti ci sarebbero potuti arrivare.
Il giorno successivo mi ripresentai a metà giornata, cercando per prima cosa i resti del capriolo. I lupi non avevano fatto ancora visita alla carcassa, che era nello stesso punto e non mancava null’altro all’appello. Un fatto strano che nel tempo mi sono sempre chiesto se trattasi di una coincidenza o qualcosa di altro. Le prede dei lupi, quelle dove loro hanno già iniziato a banchettare, non sono mangiate da altri carnivori. La volpe se può le scansa, la faina si dedica a qualcosa di diverso. Solo i necrofagi, come le cornacchie, sono incuranti di chi sia il proprietario di quelle carcasse.
I cervi non avevano pascolato nei dintorni del piano e non si erano rimessi tra le fronde degli abeti secolari. Il sale non era stato toccato. Ancora un’occasione persa e del tempo prezioso lasciato per strada. “Ma quella era la caccia”, pensai mentre ritornavo mestamente verso la mia jeep.
Tutti i cacciatori di selezione avevano già riposto le proprie carabine avendo abbattuto il capo assegnato, mentre io ancora no. A dire il vero ero partito con un ritardo inusuale per una caccia così particolare e al tempo stesso anche complicata. La medesima che non si riduceva allo sparo, in vetta su di un capanno in cima ad un passo, o bighellonando nei prati della piana. La mia caccia doveva essere preparata a tavolino. Quasi ideata, come in un percorso immaginario, che alle fine, solo alla fine, mi avrebbe condotto a tirare il grilletto.
Nel frattempo le previsioni meteo mettevano altra neve, e le mie possibilità di fare centro diminuivano vistosamente. L’intero branco avrebbe potuto cambiare zona di pastura. Sarebbe bastato attraversare il fiume alle pendici del monte per entrare in Emilia Romagna, invadendo magari il territorio di qualche altro cacciatore, lasciando inevitabilmente il mio. La mia scelta era di non avere un posto fisso dove aspettare il prescelto. Io lo avrei braccato nel suo bosco, nel suo territorio, e alla fine mi sarei mimetizzato nei pressi della sua rimessa e lo avrei colpito li, proprio dove lui non si sarebbe aspettato la presenza del cacciatore: la presenza dell’uomo.
Percorsi di nuovo il sentiero per tornare alla jeep e alla fine li vidi. Erano in fondo ad un campetto terrazzato che pascolavano tranquillamente. Un paio di casette in sassi, segno inequivocabile della presenza umana, facevano da sfondo a quel branchetto di femmine. Del maschio dominante neanche l’ombra. Per un attimo pensai che qualche altro cacciatore gli avesse già fatto la festa, poi, con soddisfazione, lo vidi spuntare dalle ultime piante prima delle casette. Lui non mi aveva sentito e io mi rammaricai di aver lasciato la carabina nella sua custodia. Tirarla fuori e caricarla sarebbe stato troppo complicato e rumoroso. Tentai di levarmela da tracolla, ma lo sfregare della cinghia sulla spalla risultò una bomba nel silenzio prodotto dai rumori del bosco. Le femmine all’unisono alzarono la testa tutte assieme e si lanciarono in una fuga repentina giù per il castagneto, scomparendo in pochi secondi. Il maschio non lo vedevo, ma sentivo lo schiantarsi dei rami secchi al passare di quel magnifico palco di corna.
Avevano spostato la zona di pascolo più in basso. Per un fatto stravagante si erano avvicinati a quell’odore di cui avevano così tanto timore, quello dell’uomo.
Non li seguii oltre, li lasciai in pace. Decisi che ci avrei riprovato nei giorni a seguire, magari dopo la nevicata che tutti attendevamo.
Dopo due giorni, infatti, nevicò. I fiocchi cadevano lenti, in assenza di vento. La perturbazione proveniente dalla Corsica aveva incontrato l’aria fredda sospinta dai venti del nord, che proprio quella notte erano cessati. Una calma apparente e un silenzio ovattato dal quel manto bianco davano al territorio un aspetto pacato e idilliaco. Tutto appariva omogeneo sotto la coltre bianca della neve che stava montando come la panna in uno sbattitore.
Rimanemmo per tutto il giorno in casa, aspettando che quei fiocchi lasciassero il posto ad una bella giornata, quanto mai fredda, di sole.
Faceva sempre così. La nevicata durava un giorno a malapena, poi, il vento del nord, vinceva ancora una volta lo scontro ancestrale per il controllo del tempo, e il sole faceva di nuovo capolino da quelle nubi che, alla fine, dopo aver scaricato il loro carico prezioso, sembravano solo nebbia.
La neve era un evento importante per la natura tutta e per la gente, che alla fine ne faceva parte.
Riusciva ad inzuppare il terreno piano piano, in occasione del disgelo, e non scorreva via, inesorabilmente verso il mare, come quando piove forte, troppo e tutto insieme.
Le strade rimanevano per qualche giorno impraticabili e la precarietà delle linee elettrice non assicuravano l’energia nelle case. Così per qualche giorno regnava il subbuglio, e tutti si faceva il possibile per non fare e rimandare a giorni migliori tutto il superfluo. Decisi di partire a piedi. Arrivai nei pressi del fiume con l’unico mezzo mia disposizione: il treno. Costeggiava il corso del torrente di montagna fino a Porretta Terme. In ogni caso scesi molto prima e con un abbigliamento stravagante, composto da una tuta bianca messa sopra i vestiti mimetici per il freddo, mi addentrai invisibile nella macchia. Il bianco prevaleva su tutto e anche io facevo la mia parte nel mimetizzarmi. Trovai la mulattiera che dal basso mi avrebbe condotto alle casette. Vedevo a distanza le pestate di un po’ tutti gli animali del bosco. Almeno di quelli che ce l’avevano fatta o che non erano andati in letargo. Nel bianco tagliuzzato dalla vegetazione ormai spoglia e a sua volta ridisegnata dalla neve appiccicata sopra, arrivai a poco meno di duecento metri dalle casette. Fortunatamente erano disabitate, ristrutturate e ben tenute, ma prive di presenza umana. Il manto nevoso aveva ovattato il mio camminare e le foglie secche sotto la neve non producevano più quel rumore, che loro, i cervi, lo avrebbero sentito da una distanza di cinquecento metri.
Arrivai riparato da quei piccoli edifici, con un rivolo di sudore che cadeva dalla mia fronte e trovava il primo sbarramento dettato dalle sopracciglia. Quando mi affacciai per vedere i campetti terrazzati di là dei minuscoli fabbricati li vidi.
Erano tutti ai margini della vegetazione, sembravano aspettare che qualche miracolo togliesse la neve dalle scatole e loro potessero finalmente mangiare. In verità non sarebbero morti di fame, perché disseminati in tutta la montagna c’erano diverse mangiatoie, dove una o due presse di fieno li stavano aspettando.
Questa volta ero pronto. La carabina carica e l’ottica preparata per un tiro a breve distanza. Il maschio, ancora lui, era piuttosto coperto dal branco delle femmine. Pensai che sarebbe stato facile. Aspettai il tempo necessario perché una di loro si spostasse, e poi lo vidi in tutta la sua magnificenza. Anche lui accennò ad un movimento verso il centro delle femmine, poi si fermò quasi a volersi fare vedere bene.
Mentre levavo la sicura, e mi apprestavo a fare fuoco, pensai che le femmine dell’harem erano tutte state già inseminate e, in ogni caso, avrebbero proseguito la sua discendenza con la prole che avevano in grembo.
Sentii il rumore dell’impatto del proiettile che si conficcava poco sotto la spalla dell’esemplare, poi lo sparo, e subito dopo il trambusto del resto del branco che se la dava a gambe.
Il maschio si accasciò a terra e rotolò un paio di volte, prima di fermarsi privo di vita quasi alla mulattiera. Lo osservai mentre la vita usciva definitivamente dal suo corpo con due lunghi respiri che gonfiarono per l’ultima volta i suoi polmoni.
Rimasi per un attimo ad ammirare l’animale consapevole di quello che mi sarebbe aspettato per portarlo a casa e poi, un sapore metallico, segno del defluire dell’adrenalina, entrò nella mia bocca. Un leggero tremito, dettato forse dall’odore di quel sangue, avvolse le mie gambe e dovetti sedermi guardando poi in lontananza il branchetto di lupi, che lasciava forse per sempre quei territori, perché il padre di tutti i predatori era di nuovo nella loro zona di caccia: l’uomo.