L'ultima avventura
- Scritto da Cacciando
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Era un mercoledì sera, Paolo e suo padre Gian non stavano più nella pelle: l'indomani la caccia al camoscio sarebbe iniziata, finalmente il giorno tanto atteso era venuto. Paolo era solo un po' preoccupato per suo padre, un uomo di 85 anni col volto scavato da rughe, capelli grigi e spettinati che sembravano sintetici e occhi, da quando la moglie era mancata, spenti come quelle luci di qualche strada che, ad una certa ora, non garantiscono più una buona visuale ad automobilisti; egli sorrideva solo quando andava a caccia, era la sua droga, la cura del suo cuore che, per via dell'avanzata età, non funzionava come allora.
Passarono la notte insonne, troppo ansiosi, troppo agitati per chiudere occhio: la caccia appassiona, ti divora nel buon senso del termine. Partirono alle quattro per essere sul posto con le prime luci dell’alba ed evitare che qualcuno li precedesse. La notte stellata accompagnò il viaggio e, a metà tragitto, si fermarono al solito bar a bere un caffè e mangiare qualcosa; si fecero anche versare un goccio di genepì. Erano veri e propri montanari in grado di ingurgitare liquidi pesanti a qualsiasi ora.
Con quel poco di alcol in corpo ripartirono alla volta del Col dell'Orso, montagna ripidissima e ricca di camosci ,i animali stupendi da far invidia persino ai trofei abruzzesi. In macchina Gian confessò al figlio che il suo più grande sogno sarebbe stato quello di abbattere un camoscio mai visto prima d’allora, un trofeo magnificente , di quelli che ti lasciano basito.
Arrivarono a fondovalle, fumarono una sigaretta, allacciarono stretti gli scarponi, si caricarono lo zaino sulle spalle e via verso la cima dove, camosci e stambecchi, prosperano da sempre nutrendosi di erbe, passando inverni rigidi e resistendo fino alla primavera successiva: davvero animali stupendi, e la caccia è anche apprezzare la natura e le bellezze che offre.
Scorsero di tutto durante il tragitto: marmotte, cervi, caprioli e persino un gallo forcello, diavolo nero avversario da sempre e che, per la sua astuzia e innata velocità, illude cacciatori e amici a quattrozampe. Gian e Paolo preferivano la caccia con il cane ma il camoscio aveva qualcosa di mistico che li continuava ad affascinare.
E così, dopo due sudate ore di una pesante salita, arrivarono in zona di caccia. Gian esaltava i suoi vecchi scarponi in cuoio ingrassato e il suo binocolo pesante, anch’esso vecchio ma, per lui, ottimo e molto versatile; egli malediceva chi lo invitava ad attrezzarsi con roba più moderna. Lui doveva abbattere una femmina mentre Paolo un binello. Videro maschi lottare, aquile volare, un biancone che schizzò via da sotto una roccia e, addirittura, il raro ermellino in ambito invernale: era già una giornata perfetta così.
Passarono 10 minuti e, da una cresta si vide comparire un binello: Paolo aspettò che si spostasse e sparò... lo mancò. Continuarono a camminare e nel giro di 5 minuti Gian sbagliò anche lui una bella femmina: nella valle si sentì qualche imprecazione.
Gian non era più quello di una volta, infatti Paolo, giovane quarantenne forte come un toro, dovette fermarsi ad aspettarlo diverse volte. Rispettava molto suo padre. La salita riprese, sempre più, fino a che scorsero un camoscio: binocolarono e si accorsero che era una femmina dal trofeo imponente. Tirò fuori il telemetro:400 metri, fece un cenno a suo padre ed incominciò l'avvicinamento.
Arrivarono a tiro, precisamente a 250 metri. Gian caricò il suo 6,5X68 Mannlicher e, affaticato, puntò. Passò qualche minuto prima che esplodesse il colpo. Sparò: il camoscio era stato ferito. A questo punto lo andarono a cercare.
Arrancando arrivarono sul luogo dello sparo, trovando una consistente presenza di sangue ma senza una precisa direzione: non sapevano dove avesse potuto rifugiarsi. Incominciò la ricerca in zona, si divisero e si mantennero a contatto tramite radio. Niente di niente, ore di disperate ricerca vana quando ad un certo punto Paolo sentì un tonfo. Si diresse verso il luogo da dove proveniva tale rumore: suo padre Gian, avvocato di 85 anni, sfortunato e con qualche vizio aveva sì trovato il suo camoscio ma l’aveva pagato a caro prezzo...era morto e, probabilmente per caso, cadendo era finito in un buco dove il camoscio giaceva. Due avversari eterni giacevano nello stesso punto, il fato aveva voluto così.
Paolo pianse molto quando ad un certo punto si ricordò di cosa affermava suo padre: "Paolo, sai quale sarebbe la mia più grande soddisfazione? Morire sulle mie montagne e riposarvi in eterno sognando, perché quelle terre delle mie più grandi gioie si saranno unite a me, per sempre" e al pensiero di queste parole si commosse. Suo padre era morto felice, "abbracciato" ad un magnifico camoscio che Paolo, per la disperazione, non aveva ancora notato: quel camoscio leggendario che descriveva suo padre esisteva ed era morto con lui; da una parte un cacciatore dall'altra un camoscio: la lotta eterna fra l'uomo e la preda che continua da sempre e che sta alla base della generazione umana.
Paolo pulì soddisfatto il camoscio di suo padre, se lo caricò nello zaino e se ne andò. Esaudì il desiderio di suo padre e lo lascio lì. Andò al controllo dove tutti magnificavano quell’animale, nessuno aveva mai visto nulla di simile. Tornò a casa ed avvisò i parenti che capirono al volo la scelta di lasciarlo riposare lì, su un letto d'erba, dove lui sognava di addormentarsi in eterno.
Passarono la notte insonne, troppo ansiosi, troppo agitati per chiudere occhio: la caccia appassiona, ti divora nel buon senso del termine. Partirono alle quattro per essere sul posto con le prime luci dell’alba ed evitare che qualcuno li precedesse. La notte stellata accompagnò il viaggio e, a metà tragitto, si fermarono al solito bar a bere un caffè e mangiare qualcosa; si fecero anche versare un goccio di genepì. Erano veri e propri montanari in grado di ingurgitare liquidi pesanti a qualsiasi ora.
Con quel poco di alcol in corpo ripartirono alla volta del Col dell'Orso, montagna ripidissima e ricca di camosci ,i animali stupendi da far invidia persino ai trofei abruzzesi. In macchina Gian confessò al figlio che il suo più grande sogno sarebbe stato quello di abbattere un camoscio mai visto prima d’allora, un trofeo magnificente , di quelli che ti lasciano basito.
Arrivarono a fondovalle, fumarono una sigaretta, allacciarono stretti gli scarponi, si caricarono lo zaino sulle spalle e via verso la cima dove, camosci e stambecchi, prosperano da sempre nutrendosi di erbe, passando inverni rigidi e resistendo fino alla primavera successiva: davvero animali stupendi, e la caccia è anche apprezzare la natura e le bellezze che offre.
Scorsero di tutto durante il tragitto: marmotte, cervi, caprioli e persino un gallo forcello, diavolo nero avversario da sempre e che, per la sua astuzia e innata velocità, illude cacciatori e amici a quattrozampe. Gian e Paolo preferivano la caccia con il cane ma il camoscio aveva qualcosa di mistico che li continuava ad affascinare.
E così, dopo due sudate ore di una pesante salita, arrivarono in zona di caccia. Gian esaltava i suoi vecchi scarponi in cuoio ingrassato e il suo binocolo pesante, anch’esso vecchio ma, per lui, ottimo e molto versatile; egli malediceva chi lo invitava ad attrezzarsi con roba più moderna. Lui doveva abbattere una femmina mentre Paolo un binello. Videro maschi lottare, aquile volare, un biancone che schizzò via da sotto una roccia e, addirittura, il raro ermellino in ambito invernale: era già una giornata perfetta così.
Passarono 10 minuti e, da una cresta si vide comparire un binello: Paolo aspettò che si spostasse e sparò... lo mancò. Continuarono a camminare e nel giro di 5 minuti Gian sbagliò anche lui una bella femmina: nella valle si sentì qualche imprecazione.
Gian non era più quello di una volta, infatti Paolo, giovane quarantenne forte come un toro, dovette fermarsi ad aspettarlo diverse volte. Rispettava molto suo padre. La salita riprese, sempre più, fino a che scorsero un camoscio: binocolarono e si accorsero che era una femmina dal trofeo imponente. Tirò fuori il telemetro:400 metri, fece un cenno a suo padre ed incominciò l'avvicinamento.
Arrivarono a tiro, precisamente a 250 metri. Gian caricò il suo 6,5X68 Mannlicher e, affaticato, puntò. Passò qualche minuto prima che esplodesse il colpo. Sparò: il camoscio era stato ferito. A questo punto lo andarono a cercare.
Arrancando arrivarono sul luogo dello sparo, trovando una consistente presenza di sangue ma senza una precisa direzione: non sapevano dove avesse potuto rifugiarsi. Incominciò la ricerca in zona, si divisero e si mantennero a contatto tramite radio. Niente di niente, ore di disperate ricerca vana quando ad un certo punto Paolo sentì un tonfo. Si diresse verso il luogo da dove proveniva tale rumore: suo padre Gian, avvocato di 85 anni, sfortunato e con qualche vizio aveva sì trovato il suo camoscio ma l’aveva pagato a caro prezzo...era morto e, probabilmente per caso, cadendo era finito in un buco dove il camoscio giaceva. Due avversari eterni giacevano nello stesso punto, il fato aveva voluto così.
Paolo pianse molto quando ad un certo punto si ricordò di cosa affermava suo padre: "Paolo, sai quale sarebbe la mia più grande soddisfazione? Morire sulle mie montagne e riposarvi in eterno sognando, perché quelle terre delle mie più grandi gioie si saranno unite a me, per sempre" e al pensiero di queste parole si commosse. Suo padre era morto felice, "abbracciato" ad un magnifico camoscio che Paolo, per la disperazione, non aveva ancora notato: quel camoscio leggendario che descriveva suo padre esisteva ed era morto con lui; da una parte un cacciatore dall'altra un camoscio: la lotta eterna fra l'uomo e la preda che continua da sempre e che sta alla base della generazione umana.
Paolo pulì soddisfatto il camoscio di suo padre, se lo caricò nello zaino e se ne andò. Esaudì il desiderio di suo padre e lo lascio lì. Andò al controllo dove tutti magnificavano quell’animale, nessuno aveva mai visto nulla di simile. Tornò a casa ed avvisò i parenti che capirono al volo la scelta di lasciarlo riposare lì, su un letto d'erba, dove lui sognava di addormentarsi in eterno.