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Cacce perse

Di cacce ormai perse ce ne sono tante: alcune sono state abbandonate per espresso divieto di legge, altre perché ormai diventate infruttuose, altre ancora perché le trasformazioni del territorio, di fatto, le impediscono. Non parlo solo di cacce importanti e che richiedevano grandi spiegamenti di mezzi, alle quali sono stati dedicati interi trattati (si pensi all’uccellagione mediante roccoli, alla "tela" alle folaghe, ecc.), ma soprattutto di quelle semplici e poco impegnative che ogni cacciatore, anche con poca disponibilità finanziaria e di tempo riusciva a fare, magari negli angusti limiti concessi dalle incombenze quotidiane. Ogn’una meriterebbe un ricordo, non tanto perché particolarmente "sportiva"(?) o esaltante, ma perché donava anche al cacciatore più modesto la possibilità di sperare, a margine di una giornata di (spesso duro) lavoro, in una manciata di emozioni regalata da una fugace (ma non casuale) uscita, a due passi da casa.

A fagiani all’imbrocco

Detta così sembra la solita storia da bracconieri che sconfinano nottetempo nella nota e ben fornita "riserva", muniti di fuciletto pieghevole, torcia e sacco. Si trattava però di altra cosa, anche se, venendo praticata sempre sui confini di qualche ricca zona interdetta alla caccia, si era sempre "sul filo del rasoio".


Elementi indispensabili erano, dunque, oltre a una riserva ben popolata da fagiani, un confine "vocato", dotato di consistente vegetazione ad alto e medio fusto, possibilmente coincidente con un bel corso d’acqua, dove i fagiani provenendo a volo o di pedina dalla zona protetta potessero "montare" per passare la notte. I posti veramente buoni, quindi, non erano poi molti e, verso sera, si animavano con un buon numero di frequentatori abituali che, silenziosamente, andavano ad occupare i posti ritenuti migliori.

La varietà umana che si poteva incontrare era veramente notevole. Vi era il postaiolo "professionista" che, alla chetichella, senza farsi troppo vedere, scompariva nel fitto della vegetazione, occupando il posto "sicuro", con possibilità, magari, di spedire una fucilata anche su qualche albero … ben oltre le paline. Vi era il vecchietto a cui l’età e gli acciacchi impedivano di fare cacce impegnative e l’aspetto serale era una delle poche possibilità in cui poteva sentirsi ancora parte del rito venatorio; vi erano gli uccellinai che, dopo il "passo" mattutino o la "scaccia" pomeridiana ai tordi, speravano di poter arricchire il carniere con un variopinto gallinaceo; vi erano contadini e artigiani che, a margine della giornata, in abiti da lavoro, riuscivano a strappare uno scampolo di caccia alle loro attività quotidiane; vi erano convinti stanzialisti (me compreso) che per non tornare a casa prima del buio, si fermavano volentieri una mezz’ora, ai margini della riserva, legando al guinzaglio il cane il quale, stremato dalle fatiche della giornata, di buon grado si accucciava ai piedi del padrone. Vi era, infine, chi un cane non poteva permetterselo e voleva tentare ugualmente di portare a casa, una volta ogni tanto, l’ambito gallinaceo.

Contrariamente a quello che si può pensare, vedere un fagiano all’imbrocco non era così semplice: certo, poteva capitare il fagiano caciarone e sprovveduto che, dopo una lunga scoconata, si posa su un ramo "scucco", ma molto più spesso, specie se un po’ smaliziato, arrivava di pedina in prossimità della pianta prescelta e con pochi battiti ovattati di ali raggiungeva un ramo ben occultato dal fitto della vegetazione.

Non tutte le specie di alberi erano poi predilette in eguale misura: le querce, potenzialmente, erano sempre buone, perché fino alla chiusura mantenevano abbondante foglia, ma a settembre potevano andar bene anche i pioppi e, con i loro rami orizzontali, le acacie. Nelle giornate ventose erano preferiti i grossi alberi avviluppati dall’edera, forse perché permettevano ai fagiani di imbroccarsi sui rami bassi, più stabili e ugualmente ben coperti da fogliame.

Vi erano giornate, poi, più o meno propizie: nei giorni seguenti l’apertura, con tempo caldo e asciutto molti fagiani potevano rimanere a dormire sul terreno, dentro la riserva, mandando "in bianco" le aspettative dei cacciatori; molto promettenti, invece, erano le giornate umide, specie se un po’ prima di sera la pioggia smetteva. Se l’acqua continuava a cadere ininterrottamente, all’opposto, era molto difficile vedere qualche cosa perché, di solito, i fagiani, poco invogliati al volo, trovavano rifugio a pochi metri da terra, dentro i roveti più intricati o tra le vitalbe.

Ugualmente variabile era l’orario dell’appollo: nelle serate piovose i fagiani "montavano" prestissimo e, a volte, capitava che all’approssimarsi alla posta prescelta, partissero fragorosamente dalla pianta su cui  si erano già imbroccati fin dalle prime ore del pomeriggio. Nelle giornate serene, viceversa, valeva la pena attardarsi fin quasi a buio per aspettare eventuali ritardatari ... .

Dato che i tiri erano spesso al limite della portata utile, erano di rigore cartuccioni di piombo quattro, possibilmente nichelato, con poche concessioni al cinque, a inizio stagione. Io riservavo sempre un angoletto della cartuccera per un paio di pregiate Sidna o DN, serie "Extra" o di "Legia Star".

Nelle serate buone, lungo il confine, potevano sentirsi un paio di spari, più spesso, niente. In ogni caso ricordo sempre con piacere quegli scampoli di libertà contemplativa ove, senza alcuna brama predatoria, a volte, era possibile osservare a distanza ravvicinata gli animali più disparati: dal picchio al martin pescatore, passando, nel periodo ottobrino, per stuoli di tordi, merli, fringuelli, unitamente a qualche colombaccio, ai quali nessuno sparava per non spaventare gli ipotetici fagiani presenti e, soprattutto, per non incorrere nelle ire degli altri postaioli .... .

Dopo la posta, i meno schivi e i meno pressati dall’orario si soffermavano spesso, fino a notte,  a chiacchierare del più e del meno. Il fortunato che aveva potuto sparare, mostrava l’ambita preda, tra l’invidia generale, mentre qualche altro che aveva intravisto un fagiano senza aver potuto sparare, perché troppo distante o in posizione sfavorevole, si defilava senza dare nell’occhio, con il proposito di tornare, di buon’ora, la mattina successiva per poter individuare con le prime luci dell’alba, da posizione più favorevole, all’incrocio dei rami ben fissato nella memoria, quella incerta sagoma scura munita di appendice caudale ... .

"Caccia antisportiva", si direbbe oggi; ma che c’entrerà, poi lo sport con la caccia! Si tratta pur sempre di "prelievi" che se non fatti alla posta, il giorno successivo, probabilmente, qualcun altro avrebbe fatto (in maniera più "nobile", certo ...) con l’ausilio del cane.

Inutile discuterne, comunque, perché tale caccia (almeno dalle mie parti) è completamente caduta in disuso con la scomparsa delle riserve ricche di fagiani selvatici come ve ne erano una volta. Volendo far tardi lungo gli stessi confini, più facile sarebbe, oggi, imbattersi nelle scorribande serotine di qualche irsuto suide .... .

Tordi agli elleri

Come avvenisse tale caccia è abbastanza intuitivo, dato che i turdidi (e non solo loro) sono assai ghiotti dei frutti delle edere ("elleri").


Tale caccia è scomparsa, essenzialmente, perché l’epoca di maturazione delle bacche andava da gennaio a marzo, con il clou verso la fine del mese centrale, coincidente, guarda caso, con la risalita migratoria e ora .... interdetto all’attività venatoria.

Era una caccia modesta, ove non si facevano mai grandi numeri e "discreta" (oggi si direbbe "poco impattante"), tanto che, a un occhio non esperto, i frugali capannelli di frasche o i giacigli ricavati direttamente dall’intrico dei fossi sarebbero passati del tutto inosservati. Come pure le poche fucilate, singole e distanziate nel tempo, attiravano l’attenzione in modo enormemente inferiore rispetto alle scacce ai tordi che si vedono oggi, fatte con grande profusione di mezzi (dai fuoristrada alle radio ricetrasmittenti!).

Arrivato il periodo giusto, che per me coincideva, grosso modo, con la chiusura della caccia alla stanziale, l’abilità era quella di tenere sotto controllo le edere notoriamente migliori (per ubicazione e abbondanza di frutti) allo scopo di verificane il grado di frequentazione. Alcune, per la loro esposizione, maturavano quando tutte le altre erano ancora "acerbe" ed erano in grado di concentrare discrete quantità di uccelli che, nei periodi successivi, invece, si sarebbero distribuiti sulle moltissime piante nel frattempo maturate. Quelle "pronte" già sotto Natale permettevano, in periodo di stasi del passo, di racimolare un buon numero di merli fino alla  chiusura della caccia a tale specie che cadeva il 31 dicembre.

Una volta individuato un gruppo di edere sufficientemente frequentato, era indispensabile trovare una buona posizione tale da garantire la visuale migliore. A differenza che nella classica caccia al capanno ove le piante di buttata sono collocate e curate con attenzione maniacale, gli elleroni crescono dove e con il rigoglio che la natura ha voluto. La scelta del posto ove costruire il rudimentale cuccio, pertanto, non era mai semplicissima e comportava, comunque, sempre la rinuncia  a sparare su qualche settore. In alcuni casi, capannelli un po’ più strutturati resistevano di anno in anno e la loro collocazione era frutto di .... profondi studi di generazioni di cacciatori, per cui valeva la pena di limitarsi a rinfoltirli, senza perdere ulteriore tempo.

Date le premesse, il tiro non era dei più banali e richiedeva sempre buone cariche "piene" in grado di spezzare i viluppi di rametti e fogliame che spesso nascondevano la preda. Opportuna, in seconda canna, per le buttate più problematiche, una mezza corazzata di piombo otto o nove.

Molto utile, infine, munirsi di una lunga canna in bambou (anche con varie prolunghe e innesti ...), poiché la probabilità che qualche uccello, cadendo, si impigliasse nel fitto era piuttosto alta.

Il momento migliore era dopo il movimento dello spollo, poi qualche colpo si poteva fare in tutto l’arco della mattinata (dipendeva dalla pazienza ...). Le prede di elezione erano i tordi, sia bottacci che sasselli, i merli e, molto ambite, le cesene. Queste ultime avevano il "difetto" di arrivare spesso in gruppetti o in branchi anche numerosi e di permettere di incarnierare un solo capo, con fuga precipitosa di tutti gli altri.

Preda occasionale, ma sempre gradita, era la ghiandaia e, meno gradita, ma sparata sempre, per le sue malefatte, la gazza; alcuni elleri poi, soprattutto nel mese di marzo, potevano essere frequentati dagli storni. Da ricordare, infine, le rare mattinate in cui il mazzetto di tordi era gonfiato da un pettoruto colombaccio che, inaspettatamente, ci aveva fatto battere il cuore posandosi rumorosamente nell’intrico verde.

Caccia semplice e, a suo modo, affascinante, fatta di osservazione e di lunghe attese contemplative che comprendevano anche la composizione e l’allineamento delle prede in un angolo del capannello (forse un modo nostrano per onorare la preda, similmente a come avviene nella mitteleuropa con gli ungulati ...). Vicino si appoggiavano i bossoli sparati (rigidamente in cartone!), che emettevano l’odore caratteristico, provocato dalla combustione dalle buone nitrocellulose di una volta abbinate alle borre in fibra naturale; di tanto in tanto si portava, quasi con gesto involontario, un bossolo vicino al naso e si annusava quell’odore acre ma piacevole, capace, ancora oggi, da solo, di evocare emozioni.

L’appollo a passeri e storni

Scendendo ulteriormente di "nobiltà", troviamo questa che era proprio tra le più umili delle cacce. Trovato alle porte del paese un canneto "vergine" regolarmente usato come ricovero notturno da passeri o (meglio) da storni il gioco era fatto. Bastava munirsi di una buona scorta di cartucce (possibilmente economiche ...) e un’ora di divertimento era garantita.


Per la verità questa caccia poteva essere praticata nella variante del tiro a volo o in quella del tiro a fermo. La prima richiedeva una sia pur rudimentale riparo (siepe, paratina di frasche, ecc.) e una certa abilità nello sparare a volo. I tiri, infatti, erano piuttosto vari, e andavano dal traversone "puro" al "tiro del re", passando per tutte le possibili combinazioni intermedie. Insomma, una bella scuola, soprattutto per chi badava più al bel tiro che al carniere. Alla sera, meglio non fare la conta delle prede e dei colpi sparati, perché i secondi sarebbero stati molto più numerosi dei primi!

Ai tempi in cui non vi erano distanze minime da rispettare per case e fabbricati vari, era anche possibile appostarsi nei pressi di una casa colonica il cui tetto o il cui pagliaio era preso a rifugio notturno dai passeri e, a volte, dagli storni; il proprietario, di solito, acconsentiva volentieri, sperando di ridurre lo sconvolgimento di coppi e tegole provocato dai volatili. Qualche contadino, prima di dare il permesso, si accertava che non si usassero schioppi ad avancarica, per paura che lo stoppaccio incendiato potesse dar fuoco al pagliaio ....

Le cartucce, come si è detto, erano, solitamente, quanto di più infimo si potesse trovare sul mercato; chi ricaricava era spesso dotato, a forza di accorciare i bossoli sparati più e più volte, di ignobili mozziconi caricati con indicibili misturoni di polveri economiche,  spesso "arricchire" da pericolosissime balistiti, residuato bellico, abilmente (!!!) grattugiate o frantumate. La prima sera, la sparatoria era garantita; ripresentarsi il giorno dopo era quasi perfettamente inutile perché i volativi avevano già capito come funzionava e si erano trovati già un altro rifugio ... . Come caccia, insomma, si trattava di un primo assaggio di consumismo, condito ancora da un parsimonioso "fai da te".

La variante a fermo, invece, prevedeva di appostarsi direttamente dentro il dormitorio per sparare  su un posatoio utilizzato dagli uccelli prima di calarsi sulle canne oppure direttamente sulle canne stesse e, quindi a distanza ridottissima. D’obbligo un fuciletto di piccolo calibro e cartucce ridotte. In questo caso il disturbo era minimo e uno stesso sito poteva essere utilizzato anche per due tre sere ... .

Siccome nella stagione "morta" anche io, saltuariamente, mi dedicavo come diversivo, a tale pratica, con i primi risparmi comprai, a prezzo stracciato, uno strausato monocanna artigianale in calibro 32. Aveva la canna completamente camolata e, nonostante ciò, consentiva tiri incredibili.

Con quello schizzetto e con cartuccine a mezza dose, un  pomeriggio mi recai presso dei grandi canneti posti sulla riva di un lago. La località era stata scelta come dormitorio da migliaia di storni e il fatto aveva, inevitabilmente, richiamato un gran numero di cacciatori. Quando arrivai, i canneti erano già circondati da una serie di paratine (anche in doppia fila ..) tutte occupate; per di più, un paio di "equipaggi" muniti di barca presidiava anche l’accesso al dormitorio dalla parte del lago! Più di un cacciatore, vedendomi girare con il fucilino non trattenne qualche sfottò; senza badarci più di tanto, risposi con frasi di circostanza ed entrai direttamente nel fitto, sperando di fare qualche colpo a fermo agli eventuali storni sfuggiti al fuoco di sbarramento. Mi sistemai in modo da poter sparare su un piccolo salice rinsecchito, quasi completamente sopraffatto dalle canne.

Di li a poco cominciarono ad arrivare i primi branchi, "respinti" dalle immaginabili nutritissime scariche; la fucileria andò avanti per una mezz’ora, fino a quando gli storni, che sono tutto meno che sciocchi, cominciarono a volteggiare in branchi compatti e altissimi proprio sulla verticale del grande  canneto (... cioè sopra la mia testa) e, ovviamente, in quelle condizioni, nessuno era più in grado di tirare.

Da quella altezza, dopo innumerevoli acrobazie aeree, cominciarono a lanciarsi a gruppi, in picchiata, come dei piccoli stukas, direttamente sulle canne e, finalmente, potei cominciare a far sentire i piccoli schiocchi del 32. Dopo un quarto d’ora smisi di sparare anche io: avevo finito le cartucce!

Tali piccole cacce sono ora del tutto improponibili. A parte il (giusto) divieto di sparate in prossimità di abitazioni, il passero non rientra più tra le specie prelevabili. Per gli storni assistiamo allibiti, ogni anno, alle disposizioni più schizofreniche: una delle specie più numerose e, sicuramente, in espansione, viene, di volta in volta, considerata "cacciabile in deroga", con le conseguenti mille limitazioni, oppure "invasiva" e dannosa per l’agricoltura ed eliminata con strumenti scientifici di distruzione di massa!

Dalle mie parti, ormai da qualche anno, tale volatile è cacciabile solo se "colto in flagranza di danno", cioè in prossimità di uliveti, vigne e frutteti, ...... ma non nei canneti!

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