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C'erano una volta i cacciatori dello Stretto

Ero seduto su una pietra ed un albero mi faceva da schienale,si trattava dell'ultimo pino ai margini di un boschetto situato in cima ad una collina; di fronte, quasi alla stessa altezza vi era una parete di roccia e a dividerle un ruscello che scorreva lentamente andando ad accarezzare un lato del prato che si trovava più a valle, dove c'erano querce ed altri arbusti. Arrivare alla mia postazione richiedeva una mezz'oretta a passo spedito, ma per godere di quel cielo azzurro nel tiepido pomeriggio di Maggio ne era valsa la pena. La Mattina aveva piovuto e ora l'acqua evaporando faceva alzare dal sottobosco un odore che non è possibile spiegare, un odore primordiale che sopravviveva immutato dall' esistenza dei primi boschi.
All'inizio della stagione avevo abbattuto il mio falco e quindi non rischiavo di diventare "Sindaco"(titolo scherzoso dato a chi non riusciva nell'impresa di abbattere il rapace, quando ancora questa caccia era legale); tuttavia era passato più di un mese da quell'abbattimento e nonostante avessi dedicato tutti i miei giorni a quella caccia non avevo avuto la fortuna di spararne altri e ormai il passaggio di questi meravigliosi uccelli era agli sgoccioli.
Intorno a me c'erano rondini in volo e mi sfrecciavano a pochi centimetri in cerca di piccoli insetti; il loro canto, che in realtà è un gridolio, mi metteva allegria. Mentre osservavo il cielo in attesa dei falchi qualcuna di queste che volava un po' più lontana m'illudeva per qualche istante, assomigliando alla sagoma di un falco in lontananza. L'illusione durava poco, ma il rammarico un po' di più, fino a quando non me ne dimenticavo, preso dallo scrutare il cielo in attesa dell'incontro magico.
Passai un paio d'ore in questo modo, fino a quando a metà pomeriggio le rondini se ne andarono. In quel periodo, capitava di vedere i falchi così alti che sembravano puntini neri che passavano da una nuvola all'altra, si potevano avvistare anche più vicini ma spesso alti e fuori tiro; nonostante questo la loro bellezza era comunque evidente e dai colori sotto alle ali si poteva capire a quale specie appartenessero. Oggi non sembrava essere una di quelle volte. Nessun avvistamento. E così era stato per molti altri giorni addietro, ma la caccia t'insegna a saper attendere, a raggiungere gli obiettivi con impegno e costanza.
A volte attendere la preda per settimane può essere un'esperienza quasi da carcerati, un carcere autoimposto, sebbene immersi nella natura sconfinata. La noia può farla da padrona, come la voglia di riposare o anche di fare una passeggiata per sgranchirsi le gambe. Ma l'imperativo è resistere, fino a quando è troppo tardi perchè i falchi passino. Un momento di distrazione o lontani dalla postazione può compromettere l intera stagione di caccia. Dunque meglio soffrire pazientemente, anzicchè passare un anno di rimpianti.
Ed ecco che mentre il pomeriggio sembrava piatto come altri, in lontananza all'orizzonte, sopra la parete di roccia che avevo di fronte compariva un piccolo puntino nero. A quella distanza non era possibile capire di cosa si trattasse, ma la speranza corre sempre lì, all'oggetto del desiderio. Il puntino si avvicinava sempre di più mentre i contorni andavano definendosi. Anche il tipo di volo non lasciava dubbi, si trattava di un falco pecchiaiolo e si stava dirigendo proprio verso di me. Iniziò a volteggiare per prendere quota dietro al bosco di pini che si trovava nel piano al di sopra della parete di roccia, cominciò quindi ad attraversarlo diretto verso di me abbassandosi sempre di più.
Quando ebbe quasi abbandonato il bosco udì due colpi.
Proprio lì c'era un'altra postazione.
Al primo colpo capì che lo stavano sparando e ne fui rammaricato. Sentivo che era diretto a me e pensare che mi sarebbe stato tolto mi diede molto dispiacere. All'epoca i fucili semi-automatici non erano molto diffusi e le doppiette erano il fucile più diffuso, per mia fortuna. Il volatile infatti continuò  nella stessa direzione e alla stessa velocità di prima, incurante dei colpi che gli erano stati appena esplosi. Aveva però perso quota e adesso volteggiava nel vuoto antecedente la collinetta in cui mi trovavo.
Iniziò ad alzarsi ed io l'osservavo col cuore in gola. Un'emozione simile l'ho vista solo nelle mani unite e nel volto carico d'ansia e speranza dei tifosi di calcio, quando il loro campione sta tirando il rigore decisivo nella finale di coppa del mondo.
Le mie mani non erano giunte, ma stringevano il fucile che non era più un semplice oggetto, ma un caro amico, un compagno fedele di tante battute di caccia. Sapevo che il falco è capriccioso, che avrebbe potuto prendere qualsiasi direzione, ma se avesse incrociato la mia speravo che  l'innesco partisse e che il mio fedele amico non avesse avuto qualche mancanza irrimediabile.
La fortuna decise finalmente di baciarmi, scelse me e il falco prese un'immaginaria strada che passava proprio sopra la mia testa. Peccato però che arrivò nei sessanta metri, un tiro difficile in cui servono prestazioni elevate dell'attrezzatura. Fortunatamente le cartucce che mi ero caricato con le dosi tramandatemi gelosamente da mio padre facevano anche di questi miracoli.
Il primo colpo non lo raggiunse e lì il timore di perderlo mi si palesò di fronte.
Lo spettro del mio piccolo fallimento durò poco; esplosi così il secondo colpo: stavolta centrai il bersaglio, ma la strada era ancora in salita, o meglio in discesa. Il falco infatti non fu ucciso, ma colpito chiuse le ali lanciandosi in picchiata. Lo osservai con apprensione, cercando di capire dove sarebbe andato a finire per non perderlo. Eccolo lì che iniziò a planare per poi posarsi su una quercia ai piedi della collina. Diedi un'altra occhiata per memorizzare perfettamente l'albero e iniziai a scendere rapidamente la collina.
Quando mancava poco perchè arrivassi, sentii un colpo: un altro cacciatore accompagnato dal figlio, che avrà avuto una decina d'anni, abbatté il mio falco sparandolo posato. Una regola non scritta fra cacciatori vuole che, chi abbatte un pezzo di caccia che un altro ha ferito, consegni il selvatico a chi l'ha colpito per primo. Così mi avvicinai e chiesi "Ha visto che lo avevo colpito?" il cacciatore lasciò il figlio ad ammirare il falco e mi si avvicinò: "Si l'ho visto e vi appartiene, ma quest'anno non ne ho uccisi e vi sarei grato se..." "Potete tenerlo" risposi. Il bambino quel giorno sarebbe stato orgoglioso di suo padre e anche se avevo perso il falco fui contento di vedere lo sguardo ammirato del bambino che guardava l'animale in tutti i suoi dettagli. Mi fermai qualche minuto anche io ad osservarlo. Il collo lungo, la testa grigia e le ali forti. Sarei rimasto lì ore a guardarlo se non ci fosse stato nessuno, più sorpreso e sbalordito del bambino; però non ero solo e mi diedi un contegno. Salutai l'uomo dopo una brevissima chiacchierata e con la tasca vuota, ma comunque contento, risalì nuovamente la collinetta. Quasi in cima, stanco, mi fermai un attimo a riprendere fiato. Diedi un'occhiata alla mia postazione fatta di fogliame e legni secchi; proprio di sopra stavano passando in fila indiana lenti e decisi tre esemplari di falco pecchiaiolo.
Mi sembrò di essere stato derubato di qualcosa che mi spettava di diritto; iniziai a correre nella vana speranza di raggiungerli in tempo, ma era impossibile e lo sapevo bene. Potevano però esserci degli esemplari che seguivano.
Arrivato mi guardai intorno, ma nulla, neppure all'orizzonte. Sembrava che in tutto il pomeriggio non fosse successo niente, il posto aveva conservato la sua calma di sempre. Forse non era successo nulla per davvero e la tranquillità del posto m'invitava a pensare questo. Ci avrei anche creduto se non fosse stato per l'affanno della salita fatta di corsa e se una grande rabbia non avesse iniziato a divorarmi da dentro. L'immobilità del posto faceva crescere quel sentimento. Cercavo d'individuare il colpevole e la cosa più fastidiosa era che non c'era, neppure con me stesso avrei potuto avercela. Il pomeriggio era ormai bruciato e la voglia di tornarmene a casa era tanta, ma cercai di non abbandonarmi allo sconforto e richiamando a me tutta la razionalità continuai ad infliggermi quell'attesa che però non portò a niente. Non portarono a niente neppure i giorni seguenti, così come il resto della stagione utile per cacciare i falchi. Potrei anche raccontare il contrario ma la verità è che spesso non dipende da noi. La natura è una donna volubile che si concede come e quando decide lei e il massimo che possiamo fare è cercare di essere lì quando deciderà di essere disponibile .
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