Menu
RSS

facebooktwitteryoutubehuntingbook

Il cinghiale in Zona Alpi

Il cinghiale in Zona Alpi
Quando si affronta l’argomento caccia una delle cose che più spesso si leggono o sentono dire è come questa in Italia sia stata…salvata dal cinghiale!
Si tratta di un’affermazione piuttosto forte e certamente esagerata, ma in tutto ciò c’è del vero.
E’ indubbio come l’irsuto selvatico sia ormai diventato una delle prede più ambite dai cacciatori italiani, e questo per la sua prolificità e l’adattamento ad ogni ambiente, offrendo occasioni d’incontro praticamente in ogni regione.
Il cinghiale sparì da molte zone della nostra penisola nel secolo passato, cacciato un po’ ovunque per la prelibatezza delle sue carni ed osteggiato per la sua dannosità da coloro che traevano sostentamento da campi e coltivi, in un’epoca nella quale il settore agricolo (non a caso gli economisti lo definiscono “primario”) contribuiva in maniera determinante al PIL nazionale.
A metà del secolo scporso lo si cacciava ancora nelle maremme laziale e toscana e sull’appennino liguro-piemontese o sulle Alpi Marittime, dove alcuni soggetti sconfinavano dalla vicina Francia; inoltre in Sardegna, isola con una fauna autoctona molto particolare, era presente con una sottospecie, piùpiccolo di quello presente nel continente europeo .
Fu però negli anni sessanta che si pensò di reintrodurlo a fini venatori, così come fu fatto per altre specie selvatiche, ed il cinghiale trovò condizioni favorevoli al suo sviluppo, diffondendosi rapidamente.
In quel periodo la gente mosse verso le città, attratta da nuove prospettive di benessere e lavoro, abbandonando campagne, colline e anche le montagne dove la vita era stata sempre più dura che altrove; l’Italia in un decennio o poco più divenne una potenza industriale, il cementò colò ovunque e nuove strade e moderne autostrade tagliarono il Paese in lungo e largo, mutando aspetto e incidendo sull’ambiente.
Una delle conseguenze più immediate fu lo sviluppo di nuovi boschi e di incolti, là dove il lavoro di generazioni d’uomini e donne aveva dissodato, lavorato e coltivato per secoli.
I cacciatori italiani, abituati a inseguire lepri con i loro segugi, o cercare starne, pernici rosse, fagiani e quaglie con i loro cani da ferma, fecero conoscenza con un genere di selvatico in quegli anni ancora semisconosciuto: l’ungulato.
Caprioli, cervi, camosci, mufloni e daini cominciarono ad essere cacciati da nord a sud, da est a ovest, prima in riserve private ma poi anche in territorio libero, dalle Alpi all’Appennino; ma fu il cinghiale quello che “esplose” letteralmente dal punto di vista numerico, andando ad occupare zone da cui era sparito ormai da secoli, e dove nemmeno esisteva una tradizione venatoria a lui riservata. 
La specie maggiormente presente in Italia, quella maremmana, con soggetti di taglia media, compatti e talvolta con mantello brinato, si trovò ad essere in competizione con soggetti imponenti, giunti principalmente dall’Est Europa dove il cinghiale arriva agevolmente a superare il quintale, con alcuni elementi che possono anche raddoppiare quel peso.
Questo “inquinamento genetico” contribuì di certo a rafforzarne la specie, ma aumentò anche le difficoltà perché lo sviluppo demografico sfuggì al controllo, divenendo un problema per gli ingentissimi danni che questi suidi selvatici sono in grado di arrecare alle coltivazioni.
Si dice ve ne siano oltre un milione di esemplari ed il cinghiale ora lo si caccia in tutta Italia, isole comprese (recentemente anche in Sicilia, perché in Sardegna, pur aumentata di numero, la specie è sempre stata endemica), e praticamente in ogni ambiente; noi vogliamo raccontarvi qualcosa della sua caccia in montagna, e nello specifico sulle Alpi.
Il cinghiale in montagna è sempre stato presente, così come lo si trovava nelle immense foreste planiziali che ricoprivano la Pianura Padana, e il Piemonte certo non faceva eccezione; resta il fatto che nel corso del Novecento lo si poteva dire praticamente estinto dalla catena alpina, se non per sue sporadiche apparizioni con soggetti che “svalicavano” dalla confinante Francia. Le cronache raccontano di qualche soggetto abbattuto nel Pinerolese, ma si trattava di eventi così rari da essere riportati anche sui giornali locali.
In quegli anni i fianchi delle montagne era coltivati sino a notevoli altitudini, tanto che dove ora vi sono piste da sci e impianti di risalita in quei tempi si raccoglievano patate o si mietevano orzo, grano e segale.
Verso gli anni settanta qualcosa cominciò a mutare, e di lì a poco più di un decennio la presenza del “setolone” si fece via, via più consistente, tanto che i cacciatori piemontesi poco adusi a quella specializzazione venatoria inizialmente lo insidiarono con le stesse mute di segugi con cui braccavano sempre meno frequenti lepri.
Sta di fatto che da allora ormai sono passati una trentina d’anni, e la caccia al cinghiale si è sviluppata moltissimo, ed in tutte le forme con le quali si esercita quel prelievo: la braccata, la girata ed infine selezione.
In Piemonte al momento, e con la possibilità la Regione ne possa modificare dimensioni o suddivisione con il disegno di legge sulla caccia appena presentato, attualmente esistono 21 ATC (Ambito Territoriale di Caccia) e ben 17 CA (Comprensori Alpini), distribuiti quest’ultimi lungo la catena montuosa che, partendo da sud e proseguendo ad ovest e nord, lo cinge quasi interamente, separandolo da Liguria, Francia, Valle d’Aosta e Svizzera.
Limitando la nostra attenzione alla montagna, quella che la stessa legge nazionale 157/92 definisce “zona faunistica delle Alpi”, riscontriamo come in tutti questi la caccia al cinghiale coinvolga sempre più appassionati, attratti certo dalla di un carniere importante, il famoso…sacchetto di carne, ma anche dalle emozioni che essa sa regalare a chi la pratica.
Scrivevamo poco sopra che si esercita in tre differenti forme, e dunque ora concentriamoci su questo aspetto, analizzandole brevemente, una ad una, partendo da quella maggiormente praticata: la braccata.
Si tratta certo della forma caccia al cinghiale più tradizionale tra tutte, quella che generazioni di…seguaci di Nembrotte, hanno praticato altrove, od altri hanno potuto conoscere leggendone nei racconti di grandi scrittori venatori toscani dell’Ottocento come Ugolini o Niccolini, e di novellieri come Fucini e Paolieri; oppure, restando ai giorni nostri nel bel romanzo “Re di Macchia” dell’inossidabile Bruno Modugno e in “Viva Maria” di Franco Nobile.
La braccata è l’azione venatica collettiva per definizione, esercitata sempre in squadra e con numerosi cacciatori, suddivisi in battitori e postaioli, distribuiti sul territorio.
Le squadre si ritrovano fuori dai paesi che è ancor buio, in modo da offrire a coloro che occuperanno le “poste” di raggiungerle per tempo e prima dell’inizio delle battute; ma poiché l’orografia del territorio non è certo facile o pianeggiante, e nemmeno sono disposte altane ai margini di boschi o tagliate, talvolta ci vanno delle ore, superando dislivelli importanti e spesso camminando alla luce della torcia nella neve.
Quando a fondovalle i battitori rilasciano i cani, in genere mute di segugi particolarmente abili in quei difficili territori; da noi sono molti usati i cani francesi, come i robusti griffoni vandeani o i più eleganti ariegois, ma anche i…nostrani segugio maremmano o l’Italiano a pelo forte.
Quando cominciano i latrati bisogna che i cacciatori siano tutti al loro posto, coprendo tutte le linee di fuga dei cinghiali mossi dai cani. Può essere s’inizi la battuta con temperature miti e terreno sgombro da neve, a quote di sette/ottocento metri e si finisca la battuta a duemila e oltre, al gelo e magari pure nella neve che t’arriva sino al ginocchio.
Quando poi la fucilata spegne la fuga d’un grosso verro passato indenne alle poste basse, e magari la stava facendo franca superando la cresta e scendendo sull’altro versante, allora si deve organizzare il recupero della sua carcassa, in zone difficili e non servite da strade o sentieri. 
Il cinghiale occupa regolarmente i terreni montagnosi, raggiungendo quote talvolta ragguardevoli, tanto che sono molti i casi d’animali avvistati o abbattuti là dove sarebbe più normale cacciare un camoscio.
Verso la fine della stagione, novembre e dicembre, quando in genere la neve è orma caduta copiosa in quota, gli animali s’abbassano e allora i boschi risuonano delle braccate e s’odono le secche fucilate dei calibri 12 o delle carabine (per questa forma di caccia in Piemonte si possono usare entrambi).
Un paio d'anni fa mentre ero in zona forcelli e coturnici, ne ho fatto incontro ravvicinato, ad oltre 2.300 metri d’altezza; il cinghiale, un grosso maschio, disturbato da altri cacciatori di piuma più in basso di dov’ero io, risaliva un ripido canalone, e si è trovato a tu per tu con la mia setter, stupita quanto lui di quell’inatteso rendez vous. Entrambi hanno preferito evitare il contatto, con sollievo dello scrivente conscio che uno sciame di pallini del “6” difficilmente avrebbero dissuaso l’irsuto bestione da una carica a me o alla mia amica pelofrangiata.
Il cinghiale viene anche cacciato da squadre meno numerose, e con l’ausilio di un solo cane o al massimo due o tre (in genere slovensky kopov, jagd terrier, bassotto tedesco o dachsbracke): è la così detta “girata”, praticata anche nella zona faunistica delle Alpi.
 
Come funziona questa forma di prelievo, sempre più diffusa ed incentivata specialmente in zone dove l’uso di grosse mute di cani potrebbero arrecare disturbo all’altra fauna ungulata (e non solo).
Per praticarla non serve essere in molti, ma bisogna disporre di cani corretti e…piuttosto corti, e cioè poco propensi ad allontanarsi troppo dal conduttore; spesso questi vengono condotti al guinzaglio ed una volta rintracciate le piste degli animali che si sono mossi per la notte, vengono rilasciati.
Quando l’abbaio a fermo segnala ai cacciatori che l’ausiliare ha individuato i selvatici allora ci si apposta, per concludere l’azione di caccia.
Se i cinghiali sono rintanati in qualche folto i cani cercano di farli uscire, coadiuvati dai cacciatori che però debbono prestare massima attenzione a che i selvatici non attacchino i loro ausiliari. Anche in montagna sono molti i cacciatori che debbono interrompere la giornata di caccia per correre dal veterinario a far…ricucire i loro segugi; in alcune situazioni purtroppo li debbono invece seppellire, a testimonianza di come quello del cane da cinghiale sia sempre mestiere difficile. La girata “impatta” molto poco sul territorio, aspetto che diventa essenziale in montagna, dove l’ambiente va tutelato con particolare attenzione, e così capita d’essere a caccia di beccacce ed incontrare i “cinghialai”, senza mai disturbarsi l’un altro, semmai scambiandosi informazioni su avvistamenti di selvatici.   
L’ultima forma di caccia al cinghiale, questa praticabile in montagna anche al di fuori della normale stagione venatoria (in Piemonte da fine settembre a fine dicembre), è la selezione.
Qui il cacciatore può usare esclusivamente la carabina, prelevando solo gli animali indicati nel piano di abbattimento richiesto dal CA ed autorizzato dalla Regione.
Quest’anno era possibile sparare ai cinghiali già da metà aprile, ma sono stati pochi i CA a richiedere tale forma di prelievo. Le ragioni sono più di ordine pratico che altro, ma resta il fatto che la selezione incide molto poco sul totale degli abbattimenti e, sebbene la Regione abbia pressato i Comprensori al fine di contenere i danni agricoli, la risposta del mondo venatorio è sempre stata piuttosto tiepida. In effetti cacciare il cinghiale di selezione è poco proficuo, ostacolati spesso da divieti che impediscono ai cacciatori l’utilizzo di piste forestali ed altre strade necessarie a raggiungere le zone in cui vivono i branchi, oltre al fatto che spesso sul terreno è ancora presente in notevole quantità la neve.  E’ auspicabile che anche la politica sappia correggere la rotta, perché la selezione delle tre è certamente la forma di caccia più indicata in una logica di gestione del territorio.
Chiudo con un’altra forma di caccia, non consueta ma al contrario occasionale: quella vagante, talvolta praticata dal singolo.
E’ consentito al cacciatore munito di autorizzazione di abbattere il cinghiale, pur se lui fosse appostato per sparare a tordi o cesene o in giro per montagne e boschi alla ricerca di forcelli o beccacce con il suo cane da ferma.
A me è successo diverse volte, non ultima la passata stagione, in compagnia di un amico che d’abitudine lo caccia al singolo, e senza il cane.
Lemon, il mio setter inglese abilissimo su tipica e regine, ci fece palpitare schiacciandosi a terra tra felci e castagni. Pensammo subito alla beccaccia e andammo a servirlo con gli schioppi caricati con dispersanti e piombo 8 e 9. Ma lui non aveva avventato la maliarda arciera, bensì una giovane scrofa che non ci pensò due volte a caricarlo; ci fu il tempo per un rapido cambio di munizione, ed una palla asciutta spense subito il suo ardore.
L’animale era ferito ad una zampa anteriore, forse spezzata da una recente fucilata, e dunque aveva preferito l’attacco alla fuga.
Quello era il quarto cinghiale che Lemon mi inchiodava in due uscite, a testimonianza di come anche il cane da ferma possa essere efficace per quel tipo di caccia; nelle altre occasioni ero riuscito a portarlo via, impedendogli di risolvere l’azione, ma quella volta la fortunata presenza del compagno di caccia, e l’atteggiamento aggressivo del selvatico, avevano comportato una differente soluzione finale.
So di cacciatori, anche in altre zone d’Italia, cacciano d’abitudine i cinghiali con setter, bracchi o breton, ma francamente non mi sento di consigliare tale specializzazione a nessun collega, anche perché se il cane da ferma se ne appassiona poi lo cerca, trascurando il resto: a ciascuno la sua forma di caccia.
 
Le foto dei cinghiali sono di Batti GAI
Torna su

Normative

Ambiente

Enogastronomia

Attrezzatura