La storia del Re (parte I)
- Scritto da Michele Bottazzi
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Premessa
Obsequium amicos, veritas odium parit.
L'adulazione procura gli amici, la sincerità i nemici.
Chi ha letto i miei Libri o si ciba di ciò che promana dalle pagine patinate delle riviste specializzate sa come il sottoscritto la pensi in merito alla Caccia e che rispetto serbi per quel glorioso animale che risponde al nome di Cinghiale.
Tra tutti coloro che praticano e vivono questo sport primordiale, solo pochi conoscono il loro antagonista e le proprie peculiarità, i più si limitano a vestirsi in grigioverde, farsi condurre alla posta, che non si degnano nemmeno di imparare a riconoscere nonostante, negli anni e nel corso delle stagioni, vi siano stati accompagnati innumerevoli volte, ed attendere che l'animale giunga innanzi a loro per aprire il fuoco all'impazzata e sventagliargli contro (addosso....., quando capita) il contenuto di caricatori lunghi più della loro dotazione.
Gente che non leggerà mai questa apologia perché, come ben sapete e, purtroppo, avrete veduto e vissuto, non acquisterà mai una lettura specialistica né alcun altra perché è convinta di saperne sempre un po' di più di coloro che ne parlano a ragione e con cognizione; esseri (non chiamiamoli Cacciatori) che si portano appresso un archibugio ma non distinguono l'orma di una vacca da quella di un Cinghiale, le fatte di un verro dalle loro lasciate l'ultima volta che si sono recati in quel posto (voi direte..... “tra stronzi ci si dovrebbe intendere!”), portatori sani d'ignoranza che trasformano la posta in una discarica, disseminando il panorama di involucri, lattine o altro ciarpame per un raggio di sterzata di un vecchio camion anni trenta.
Sapienti che hanno sempre un'opinione su tutto ed una critica per ognuno dei compari ma che non recuperano un cane, portano mai una preda né stanno attenti a quello che devono vigilare, lasciandosi beffare di continuo e adducendo scuse che appiccano il fuoco nei visceri dei canettieri e di tutti coloro che credono in quella meravigliosa avventura che è la Caccia!
Non per costoro cui né io né voi che leggete amiamo essere accostati, ma per tutti gli Uberto e le Diana che possano definirsi tali, scrivo con assoluto piacere ciò che andrete a leggere.
Introduzione
Al contrario di quanto tutti abbiano a pensare, gli animali che più legano la loro specie con quella umana, percorrendo le epoche ed i Continenti non sono quelli di usuale credenza, più facile rimembranza o superba possanza ma furtivi onnivori dal vello rusticamente ispido, istintive e cerebrali figure criptiche onnipresenti in boschi ed incolti ancor prima che alcuni animali divenissero servi dell'uomo.
Questa raminga figura che lascia il proprio segno di transito lungo i sentieri impervi o i viottoli più stretti tramite la belletta raccolta dopo un sollazzo in una pozza “termale”; tracce di setole appiccicate alla resina di un pino o alla corteccia avara e crespa di un albero usato per una frettolosa o rilassante impellente grattatina. Segni di zanne lungo fusti di tenere piante neutrali che subiscono la sua irruenza e prepotenza senza rimostranze né eccessivo pianto.
Tracce di una presenza che difficilmente, nonostante l'indiscreta mole, si riesce a visualizzare; esso chiamasi Cinghiale!
Etruschi e Cinghiali
Le uniche informazioni scritte sulla caccia al cinghiale in Etruria Meridionale derivano da autori greci ed autori latini dell’età repubblicana, sono quindi fonti indirette e tarde. Eliano,Varrone, Plinio il vecchio, infatti, riportano dettagliatamente le abitudini venatorie dei Tirreni, ma sono cronologicamente lontani dall’acme della civiltà etrusca. Nonostante questo, sono molti i riferimenti che offrono un quadro abbastanza chiaro ed esaustivo dei sistemi di caccia del tempo. Il cinghiale era cacciato da compagnie di cacciatori, le antesignane delle nostre squadre, attraverso l’uso di reti verso le quali gli animali erano spinti con l’ausilio dei cani e dei battitori. La “lestra” del cinghiale era individuata con l’ausilio di un cane da seguita che, dopo aver trovato il cinghiale, veniva allontanato. Una volta caduto nella rete il cinghiale veniva abbattuto con il cosiddetto “spiedo”, una sorta di lancia ben affilata dotata di un fermo posto sotto la lama per impedire che il cinghiale infilzato, avvicinandosi, ferisse il cacciatore. Eliano riporta, nella sua De Natura Animalium nel III° sec. d.C., che gli etruschi erano soliti stanare i cinghiali con l’ausilio di un flauto. Se le informazioni scritte sono tarde e indirette numerose sono invece le testimonianze iconografiche relative alla caccia al cinghiale. In un fodero di spada risalente al IX sec. a.C., rivenuto a Tarquinia nella necropoli di Poggio dell’Impiccato, viene rappresentato un cacciatore armato di spiedo che affronta un cinghiale. La posizione delle gambe del cacciatore, come pure il modo di impugnare lo spiedo, sono quelli descritti da Senofonte (430 –355 a. C.) nel suo Cinegetico. Le raffigurazioni di scene di caccia al cinghiale, su ceramica a figure rosse o nere, sono numerose. Alcune delle iconografie più affascinanti si trovano nella necropoli di Monterozzi a Tarquinia. Gli affreschi delle tombe della “Scrofa nera” , del “Biclinio” e della “Querciola” (V-IV sec. a.C.) confermano l’uso delle reti, dei cani e dello spiedo per la cattura dei cinghiali. La rappresentazione di scene di caccia nelle tombe di Monterozzi è esplicativa del ruolo che l’attività venatoria svolgeva nella società etrusca. Se da una parte essa era un importante momento di formazione dei giovani, dall’altra rappresentava una attività di svago per gli adulti, ed essendo prerogativa dei ceti più abbienti, assumeva tale rilevanza da essere raffigurata con funzioni magiche nelle pitture parietali delle tombe o nei corredi funebri.
Celti
La maggior parte del simbolismo del cinghiale viene dai Celti che lo mettevano in relazione con la battaglia e la leadership. Il cinghiale dava forza e coraggio e sognarlo o vederlo in una visione, indicava il guerriero o la guerra. La sua comparsa, ad esempio, ad Isotta preannunciò la prossima morte di Tristano. Le sue setole erano considerate detentrici di un potere innato. Nella leggenda celtica, Fion calpesta una setola di cinghiale e muore per aver infranto il gaeas (promessa o, in questo caso, proibizione) di cacciare cinghiale. Alla fine, la setola ha più potere di un uomo e il cinghiale anche se indirettamente, dispensa ancora giustizia. Il Camyx (corno da battaglia) della Scozia e del Galles riportava la figura della testa di un cinghiale e anche gli elmetti e gli scudi spesso recavano questa immagine.
Anche i Vichinghi adoravano il cinghiale per le sue qualità belliche. Era invocato dai guerrieri nordici perché desse loro la forza e la determinazione per vincere. Ad un livello più pratico, era simbolo di salute e prosperità. Era sacro a Freya e Freyr, le due divinità femminile e maschile della fertilità nell'antica Scandinavia.
I Celti attribuivano alla sua pelle qualità curative: se poste su una ferita, ad esempio, l'avrebbero fatta rimarginare. In seguito il maiale domestico divenne simbolo di fecondità e nelle tombe celtiche e in Galles è stato scoperto il corpo di diversi maiali, lasciati come cibo e per assicurarsi che l'anima passasse sana e salva nell'aldilà. Nella mitologia celtica, Ceridwin, dea dell'ispirazione, era rappresentata dal cinghiale. La vecchia dea assumeva spesso quelle sembianze per avvicinare la gente. Quindi ci si riferiva ai Druidi come ai maialini e alla dea come alla scrofa bianca.
Nella cultura celtica, i druidi venivano associati al simbolo del cinghiale.
Il mito intendeva con ciò significare l’origine prima della loro tradizione: il centro d’irradiamento spirituale posto nell’Isola Bianca, la patria di origine dei Tuatha dé DanannPresso i Celti, cibarsi ritualmente delle carni del cinghiale in occasione della festa del primo dell’anno equivaleva ad assorbire la potenza divina mediante il nutrimento sacrificale, e rappresentava simbolicamente un ritorno all’origine della tradizione: all’Isola Bianca. Il mese dell’edera – dal 30 settembre al 27 ottobre – collegato alla lettera G dell’alfabeto ogamico (gort = edera) era anche il mese del cinghiale e dei banchetti in cui veniva consumata la sua carne.
Significa il ritorno alla pienezza e all’inesauribiltà dell’Essere: il cinghiale di Walhöll, Sahrimnir, pur smembrato, si rigenera continuamente per servire assieme all’idromele di nutrimento ai prescelti.
«Andhrimnir ha cotto, in Eldhrimnir
e bollito Sahrimnir,
il migliore dei cinghiali, ma pochi sanno
di che si nutrono gli eroi»
Ricordiamo a questo proposito che una delle caratteristiche del nutrimento che proviene dall’Isola iperborea è, appunto, l’inesauribilità, caratteristica che riguarda anche la Coppa celtica dell’abbondanza e, poi, il San Graal.
Nell’Edda il cinghiale Gullinbursti (“Setole-d’oro”) o Slídrugtanni (“Zanne-taglienti”) compare in relazione al re dell’età dell’oro, Freyr, di cui tira il carro. L’Ynglinga Saga chiama l’età dell’oro in cui regnò Freyr “pace di Fródi” il cui nome esprime allo stesso tempo “pace” e “saggezza”: due caratteristiche dell’età dell’oro, infatti nell’antico islandese frodr è “saggio” e Fródi è detto «fecondo di pace».
L’età di Freyr-Fródi – sotto il segno del cinghiale – si chiude con l’avvento di Yrsa, “Figlio dell’Orsa” (dal lat. ursa), il Re che inaugura il ciclo successivo, sotto il segno dell’orso guerriero. E le dee che girano le macine del mulino cosmico. Il cinghiale raffigurato sulle insegne di guerra celtiche o sugli elmi anche presso i Germani, rappresentava la potenza luminosa e protettrice della divinità sull’esercito o sul guerriero. Tacito dice degli Estii, popolazione stanziata presso il Mar Baltico il cui culto s’incentrava su una figura di dea-madre (Mater Deum):«Portano immagini (formas) di cinghiali come amuleti religiosi che, al posto delle armi e d’ogni altra difesa assicurano protezione al devoto della dea anche in mezzo ai nemici». Il cinghiale era l’animale araldico di Merlino così come l’orso lo era di Artù. Il nome Arthur deriva infatti dal celtico Arthos (greco Arktos; cfr. sanscrito Arkshas) “orso”. Nennio (inizi sec. IX) traduce il nome di Artù in latino con ursus horribilis. Nel componimento Kulhwch e Olwen, una delle primissime fonti su Artù, il re è presentato come cacciatore di un cinghiale dal nome Twrch Treyd, o Trwyth (da twrch = porcum). Secondo il testo citato, questa fu la più grande caccia al cinghiale dell’isola e si estese al Galles del Sud ed in Cornovaglia. Twrch Trwyth era un Re trasformato in cinghiale.
Nell'Europa successiva all'avvento del Cristianesimo, come il cervo rappresentava il bene, il cinghiale era il male. Come animale pagano diventò infatti l'antitesi delle virtù cristiane. Le zanne venivano considerate alla stregua di corna e nel primo Medioevo il cinghiale fu paragonato al diavolo. Nel XIV secolo, Bastardo di Buglione vedeva i Cristiani come leoni e i Saraceni come cinghiali. Gaston Phoebes, autore del Livre de chasse nel XIII secolo, lo considerava l'animale più pericoloso del Mondo. Era capace di uccidere un uomo, un cavallo, un leopardo o un leone con un colpo solo. Era spesso l'oggetto della caccia dell' eroe epico. Veniva cacciato nella stessa maniera del cervo, ma reagiva diversamente: aveva una maggior resistenza e minore astuzia. Gli venivano attribuiti spavalderia e orgoglio: mettere all'angolo un cinghiale era considerato come una sfida a duello. Durante il periodo vittoriano si è affermata la concezione del cinghiale come campione. Le sue armi erano le zanne forti e aguzze.