Salita alla Torre d’Ovarda
- Scritto da Marco Sartori
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Esistono montagne la cui ascesa dona una grande soddisfazione per il superamento delle difficoltà incontrate e al tempo stesso fornisce l’occasione per un’interessante gita naturalistica. E la Torre d’Ovarda, nel cuore delle Valli di Lanzo, è certamente una di queste.
La nostra pigra partenza, gli ultimi giorni del luglio scorso, è avvenuta alle sette del mattino dall’Alpe Grosso d’Ovarda (1890m), laddove termina la strada sterrata che sale da Lemie. Dennis, il pastore dell’alpeggio, forse stava ancora mungendo chiuso dentro la stalla e in giro non si vedeva nessuno. Io e il Mach, cognato e soprattutto compagno d’avventura, partiamo moderando il passo perché sappiamo di non avere un buon allenamento alle spalle e la strada che ci attende sarà piuttosto lunga.
Le guide consigliano di affrontare la salita partendo dal comune di Usseglio e risalire il Rio Servìn, ma noi abbiamo preferito una via che in parte conoscevamo già e perciò siamo saliti dal Vallone d’Ovarda. Mentre il sole si alza lentamente ad est promettendo la sua imminente comparsa dietro il profilo del Ciarm e di Montù, noi ci avviamo con calma, scambiando quattro chiacchiere sulla famiglia e i figli che crescono. Poco più su dell’alpeggio, superate alcune curve del sentiero, ci fermiamo già e tiriamo fuori i binocoli: il suo è un 10X30, il mio un 8X30 che tengo sempre nello zaino in quanto leggero e compatto. Sappiamo che sulla nostra sinistra, tra la boscaglia rada che ricopre il Truc d’Ovarda, ci sono molti caprioli e ci mettiamo a scandagliare il canale finché ne troviamo un paio. A quella distanza non si capisce se sono maschi o femmine e neppure è possibile fare delle foto e ci rammarichiamo un po’ di non avere con noi strumenti ottici più sofisticati. Per noi il rapporto con la montagna è questo: non siamo veri e propri alpinisti e a questa definizione preferiamo di gran lunga quella di montanari, sebbene anche questa non sia proprio la verità. Andiamo in montagna con umiltà, senza tentare imprese impossibili, e cerchiamo di essere attenti e rispettosi osservatori della natura. Sappiamo che tra le rocce e la vegetazione si nascondono i segreti più preziosi e meravigliosi che la vita in montagna possa donare e per questo non manchiamo mai di spostarci con macchina fotografica e binocolo a portata di mano e procediamo spesso lentamente, nel massimo silenzio possibile. Chiasso, allegria e musica riscaldano il cuore degli uomini, ma allontanano gli animali da noi.
Quando siamo stanchi di osservare i caprioli che compaiono e scompaiono tra gli ontani nel loro pascolo mattutino, ci rimettiamo in viaggio e saliamo fino ai verdeggianti pianori glaciali di Pian Paschièt che già il sole ci riscalda la schiena. Sopra le nostre teste torreggia il cubico Golai e un po’ più a destra, oltre il vallone che porta su alla Chiavesso, c’è la rossa Ciorneva, con i suoi canali scoscesi e rocciosi, inospitali per tutti tranne che per le arvicole e le coturnici. Lassù sono stato spesso e quando c’è la nebbia è come essere sulla luna. Non sembra roba di questo mondo. Osservo che quest’anno il nevaio del canale principale si è sciolto. Ma d’altronde quasi tutti gli anni ormai soffre e poi scompare. Non riesce più a fare il giro, come diceva mio padre. Nell’ampio varco del Passo Paschièt il sole non è ancora arrivato e già alcuni stambecchi si stagliano contro il profilo nero della montagna, ma anche questi sono troppo lontani per essere fotografati.
Attraversato il ruscello nel pianoro erboso ripartiamo per raggiungere la Costa Fiorita. La Torre d’Ovarda ci sovrasta con picchi impressionanti, ma sappiamo che quella che vediamo è solo la bassa e spaventosa cresta orientale. Non è quella la nostra meta.
Mentre salgo sul sentiero zigzagante comincio a farmi più cauto e intimo al Mach di stare zitto. Mi aspetto che prima o poi qualcosa compaia in mezzo ai sassi e l’erba tenera e infatti dopo pochi passi vedo un camoscio che bruca al sole qualche centinaio di metri davanti a noi. Guardiamo meglio e tentiamo un avvicinamento. Sono sette o otto maschi giovani, le proporzioni del collo e la lunghezza delle corna non lasciano alcun dubbio: alcuni non hanno più di sedici mesi mentre altri di quattro o cinque anni li rincorrono e li maltrattano per definire il proprio ruolo di dominanti nel gruppo. Questi riusciamo a fotografarli bene, ma alla fine non possiamo fare a meno di disturbarli perché si trovano proprio sul nostro sentiero. Come sempre è stata una fortuna arrivare lì per primi. Ci rimettiamo gli zaini in spalla e andiamo su, mentre i ruminanti si allontanano al galoppo per scomparire oltre la cresta di Pian Paradiso.
Raggiungiamo il colletto di Costa Fiorita e il panorama sopra il Vallone di Venaus si apre davanti ai nostri occhi. Possiamo osservare tutta la catena dello spartiacque tra Val di Susa e Val di Viù, dal basso e traccagnotto Colombano per salire sul massiccio del Civrari e poi Grifone, Lunella e le varie cime dentellate che si susseguono fino al Palon e Murèt. Il Rocciamelone resta nascosto dal profilo imponente della Lera e così sarà poi per tutto il giorno. Beviamo, scattiamo fotografie e respiriamo l’aria pulita di quei 2465 metri. Lì incontriamo per un momento il tracciato del GTA che sale da Usseglio, ma non lo possiamo utilizzare perché la nostra strada ci porta a percorrere tutta la base della Torre da est a ovest su una battuta abbastanza ben definita che però le mappe non segnano, tenendoci gli inaccessibili strapiombi sulla destra e le ripide praterie alpine sulla sinistra. Non ci sono più alberi lassù e nemmeno mirtilli e rododendri, ma l’aria è profumata di timo serpillo e l’arnica gialla e le margherite rallegrano il nostro cammino. Poco dopo il nevaio che si forma alla base della cima orientale ci imbattiamo anche in una bella pianta di martagone ancora in fiore. Ormai il sole di fine luglio ci scalda costringendoci a frequenti soste per bere e riprendere fiato. L’allenamento è quello che è ed inizia farsi sentire.
Ogni tanto un camoscio ci scappa via davanti, correndo come un indemoniato a rotta di collo giù per i pendii, scomparendo in basso. Durante una pausa sentiamo dei rumori sopra le nostre teste e voltandoci vediamo degli enormi stambecchi maschi che ricambiano i nostri sguardi senza alcun timore. Sono animali agili nonostante la mole, ma non sono nervosi come i camosci e confidano nell’irraggiungibilità delle loro dimore. Si lasciano fotografare, si spostano di qualche passo e poi riprendono a brucare la sottile erba di quei terrazzini rocciosi. Noi raggiungiamo la cresta che sale ripida dalla Forcola, quella che viene chiamata Cresta del Vento. Lì qualcuno ha piantato in prossimità del sentiero una grande pietra verticale con l’aspetto di una pala. Ci stiamo lasciando alle spalle il Vallone di Venaus e davanti a noi si apre quello del Rio Servìn: la Punta Corna e la fredda piramide del Servìn ci salutano con occhio ostile.
Noi dovremmo procedere ancora in questo nuovo vallone, sempre tenendoci a ridosso delle rupi, fino al punto che la mappa segna a quota 2733 metri per poi voltare ulteriormente a destra, ma improvvisamente sono indeciso: la guida che abbiamo con noi non è chiara e dice di scegliere un canale di rocce scoscese per salire. Ma lì intorno è tutto un tripudio di rocce scoscese e nient’altro! E poi non ho tanta voglia di andare ancora in là perché ho paura che una volta arrivati sotto Punta Barale e Cima Ortetti sia poi difficile trovare una via per risalire la cresta. Le creste non sono sempre facili da seguire. Mi arrabbio con chi ha scritto la guida e tracciato le mappe, così avaro di indizi e riferimenti precisi. Lì non c’è nessun sentiero da seguire e due parole in più avrebbero fatto comodo!
Mi consulto con il mio compare e insieme decidiamo di risalire la Cresta del Vento tenendoci un po’ più sulla sinistra. E’ un percorso accessibile e dopo qualche passo troviamo anche degli ometti, quei segnali fatti di pietre una sopra l’altra. Bene, qualcuno è salito da lì prima di noi! Dopo un po’ tuttavia siamo costretti ad aiutarci con le mani e ci rendiamo conto che da quella via non potremo mai ridiscendere senza l’attrezzatura adeguata.
Strada facendo spaventiamo un gruppo di giovani femmine di stambecco e poi altri maschi, finché alla fine siamo troppo in alto e ci sembra che nessun essere vivente possa farci compagnia lassù: qualche lichene e il genepì sono l’unica alternativa alle rocce grigie. Finalmente, al termine di un vertiginoso canalino ai limiti delle nostre capacità, raggiungiamo la sommità e tutto intorno a noi si apre il vuoto. Dal Monviso al Gran Paradiso la catena alpina si estende in un arco limpido e bellissimo. Ciamarella, Albaron e Bessanese svettano di fronte a noi e sembra di poter toccare con mano il Lago della Rossa. I Laghi Verdi invece sono pozze di smeraldo sotto i nostri piedi.
Scattiamo foto, ci stringiamo la mano, e poi ci accorgiamo che quella non è la cima vera e propria, ma solo il più orientale dei segnale che si trovano sulla cresta. Allora ridiscendiamo il canalino e andiamo in là di traverso per arrivare ai fatidici 3075 metri con le mani che formicolano un po’: i nostri corpi non sono abituati a quelle altitudini e mi sta venendo anche il mal di testa. Ma ecco, proprio in prossimità della vetta, l’ultima sorpresa del giorno: sembrano due sassi che rotolano in salita. Il Mach si blocca dove sta e indica con il braccio. Io non capisco, aguzzo lo sguardo e sorrido.
Due pernici bianche si stanno sottraendo furtivamente ai nostri sguardi. Non hanno fatto la nidiata e questo è molto triste. Ma sono così belle: la femmina sembra fatta di terra, quasi invisibile contro le pietre spaccate dal vento e dall’erosione. Il maschio, con le caruncole rosse sopra gli occhi, si atteggia come un galletto ed emette un roco richiamo. Mi vengono in mente i racconti di Mario Rigoni Stern che ho letto mille volte.
Strano, il maschio ha già le piume bianche sul ventre e sotto le ali. Troppo precoce. Ogni tanto penso che forse lui sapesse, mentre io ignoravo, che da lì a un mese lassù avrebbe già nevicato.
Non so decidermi, la muta avviene in base alle condizioni di luce e non per previsione metereologica.
Dopo il felice incontro e una miriade di fotografie io e il Mach ci accingiamo a scendere. Da quel punto sono ben visibili, o occidente della cima, alcuni canaloni ripidi ma abbastanza ampi, che degradano giù verso il Vallone del Rio Servìn. Uno di questi è il Canale Rosso di cui avevo sentito parlare e che ci porterà di nuovo giù, in prossimità delle praterie. Mi accorgo che alla fine avevo sbagliato a non volermi più spostare e per abbreviare ho percorso la via più difficile. Rasserenati dal fatto di aver trovato un via più agevole per scendere e consapevoli che ci vorranno ancora molte ore prima di far ritorno alla macchina, decidiamo di mangiare un boccone e ripartire di buona lena. La Torre d’Ovarda è davvero una montagna degna di nota: immensa, spettacolare e in grado di dare emozioni forti anche a chi, come noi, non è un vero professionista della montagna. Ed è anche una montagna ricca, che sa rivelare la propria abbondanza a chi le si accosta con la giusta sensibilità e con rispetto, come spero queste pagine e le immagini abbiano dimostrato.