Piccola Stanziale: ripartiamo dal basso
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di Roberto Mazzoni della Stella
Di fronte alla dilagante sfiducia nei confronti delle capacità riproduttive naturali di lepri e fagiani che fare? Certamente non mancano i fautori del ripopolamento ad oltranza. Ormai le politiche faunistiche di tanti Ambiti Territoriali di Caccia si misurano sulla base del numero dei fagiani, i cosiddetti “riproduttori”, immessi a fine caccia e delle quantità di lepri, allevate e/o importate, liberate successivamente alla chiusura della stagione venatoria. La gara, se così si può dire, è addirittura a chi lancia di più, infischiandosene disinvoltamente dei miserrimi risultati di sopravvivenza, riproduzione e ritorno venatorio che siffatti ripopolamenti sono in grado di assicurare. Come dire? Avuta la grazia gabbato il santo! Tradotto: una volta acquistati questi animali e aver abbondantemente tromboneggiato a destra e manca chi se ne frega dei carnieri dei cacciatori, il carniere, quello vero, quello sostanzioso, per intenderci, è già in sarga! Il risvolto di siffatta politica è l’abbandono, o comunque qualcosa che si avvicina molto a questo concetto, delle Zone di Ripopolamento e Cattura, ritenute ormai istituti pubblici del tutto inefficienti, sovente ridotti a puri e semplici ricettacoli di ungulati, incapaci di offrire un significativo surplus di selvaggina, buoni quindi solo a sperperare risorse economiche degne di miglior causa.
Di fronte a questo desolato panorama occorre reagire con la massima energia e chiarezza di idee. Innanzitutto, occorre essere certi di un dato di assoluta importanza: non è assolutamente vero che la piccola selvaggina naturale sia spacciata. Ci sono certamente problemi che vengono da molto lontano, dagli anni ’60 del XX secolo, cioè dall’industrializzazione dell’agricoltura. L’impiego dei diserbanti, le colture intensive, la fine delle rotazioni agrarie, la distruzione delle prode erbose e via di questo passo, sono fattori ecologici che hanno pesato e continuano a pesare sulla vita e la riproduzione di lepri e fagiani. Ma sono problemi con i quali la piccola selvaggina stanziale aveva, bene o male, imparato a convivere già molti decenni fa. Certamente ci sono degli ulteriori elementi negativi: primo fra tutti, la crisi della cerealicoltura e la conseguente espansione dei terreni lasciati a riposo, incolti o addirittura abbandonati. Questa sorta di prateria selvatica risulta infatti quanto mai penalizzante nei confronti dell’alimentazione e della riproduzione naturale dei fagiani e anche, sia pure in misura leggermente inferiore, nei riguardi delle lepri.
Ma tutti questi aspetti ecologici negativi, sia quelli più vecchi sia quelli più recenti, possono essere facilmente attenuabili se non addirittura superabili. Per fare ciò ci vuole però una strategia di gestione ambientale adeguata: i vecchi campetti a perdere di una volta non sono più sufficienti. Ci sono tuttavia una serie di accorgimenti di facile ed assai economica esecuzione che possono ribaltare la partita, se adeguatamente supportati da un’altrettanto puntuale, tempestiva ed efficace azione di contenimento dei predatori generalisti: volpi e corvidi. Il punto non è quindi tecnico ma piuttosto politico. Se esiste, come esiste, una strategia capace di favorire al massimo l’incremento delle popolazioni naturali di lepri e fagiani, quello che manca è soprattutto un’azione di efficace sostegno al volontariato. Il vero problema è infatti rappresentato dai cacciatori appassionati di piccola selvaggina, sempre più anziani, sfiduciati e totalmente privi, diversamente da quelli che si dedicano alla caccia agli ungulati, di una valida organizzazione territoriale. Un’organizzazione capace di rappresentare in misura adeguata, tanto presso gli Ambititi Territoriali di Caccia quanto nei confronti delle stesse Regioni, le necessità della gestione faunistica e venatoria della piccola selvaggina stanziale. Per fare ciò non ci sono scorciatoie. Occorre, gioco forza, ripartire dal basso, dai pochi cacciatori ancora disponibili, fornire loro le conoscenze e gli strumenti indispensabili per una buona gestione tanto delle lepri quanto dei fagiani, favorendo per quanto possibile la graduale crescita di una loro prima embrionale organizzazione a livello territoriale. Questa strategia, tra l’altro, consentirebbe di riavvicinare anche i giovani a quella che un tempo veniva considerata la selvaggina nobile per antonomasia.