La siccità e la piccola selvaggina
- Scritto da Roberto Mazzoni della Stella
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Che effetto può avere avuto sulla piccola selvaggina stanziale la tremenda siccità appena conclusa? E’ una domanda alla quale non è per il momento possibile rispondere con dati scientifici alla mano.
Si può tuttavia provare a ragionarci sopra sulla base delle conoscenze ed esperienze disponibili, senza con questo avere alcuna pretesa di fornire spiegazioni esaurienti e tantomeno inoppugnabili, ma soltanto con il desiderio di suscitare una qualche riflessione ed aprire, se del caso, un dibattito.
Ciò premesso, mi sembra opportuno partire dalla lepre. Questo selvatico, originario delle steppe euroasiatiche, è di per sé perfettamente equipaggiato per vivere e sopravvivere in ambienti siccitosi. Anzi, a dire il vero, la lepre soffre terribilmente l’umidità piuttosto che la siccità. Primavere ed estati piovose sono quanto mai penalizzanti per questo piccolo selvatico.
Per non parlare dell’autunno, stagione durante la quale la mortalità naturale delle lepri raggiunge i maggiori livelli. In effetti, le piogge prolungate e il conseguente ristagno dell’acqua sul terreno, favorendo la sopravvivenza dei parassiti, creano condizioni ideali per l’insorgere delle più frequenti patologie parassitarie, batteriche e virali che affliggono le lepri, specialmente quelle di giovane età.
Al contrario, condizioni di siccità, rendendo più difficile il manifestarsi di queste patologie favoriscono un forte contenimento delle perdite che sovente falcidiano le popolazioni naturali di lepre. D’altra parte la lepre è in grado di soddisfare pienamente le proprie esigenze idriche nutrendosi naturalmente di graminacee e leguminose, ancorché prive di rugiada mattutina.
In conclusione, salvo verificare la consistenza delle varie popolazioni di lepre tramite l’effettuazione di appropriati conteggi notturni, le popolazioni di lepri non dovrebbero avere sofferto più di tanto questa calamità.
Per quanto riguarda il fagiano la riflessione si presenta senza dubbio più ardua. Una prolungata e torrida siccità può effettivamente ridurre la disponibilità di insetti e con questo pregiudicare in una qualche misura la sopravvivenza dei pulcini nelle loro prime settimane di vita.
Tuttavia vi sono esempi di popolazioni naturali di fagiani che riescono a vivere e prosperare in ambienti quanto mai aridi. Le esigenze idriche sembrano essere in qualche modo soddisfatte da parte dei fagiani anche in realtà ambientali a prima vista proibitive. Mi ricordava proprio in questi giorni un mio vecchio, saggio ed esperto guardiacaccia, nato e vissuto in un ambiente quanto mai siccitoso come le “Crete senesi”, che nei periodi di prolungata assenza di piogge, allorquando per abbeverare le bestie della stalla i contadini erano costretti a spostarle di diversi chilometri, i fagiani continuavano invece a rimanevano beatamente nei loro luoghi abituali, dando a vedere di non soffrire alcunché.
Ad ogni buon conto, i fagiani, e in primo luogo le femmine con i loro pulcini, hanno bisogno di luoghi ombreggiati e freschi per ripararsi dalla calura, e se dotati di acqua tanto meglio. Le aree golenali, i boschetti ripariali, rappresentano come è noto luoghi ideali per i fagiani. Il punto è che anche i predatori, in primo luogo le volpi con i volpacchiotti in tana, hanno ugualmente l’esigenza di ripararsi e di alimentarsi.
Per non parlare dei cinghiali, che dell’acqua sono in assoluto i più bisognosi. Allora, si può ipotizzare che la siccità possa indurre in taluni ambienti di rifugio degli anomali assembramenti di prede e predatori. E predatori come le femmine di volpe e di cinghiale, assillate dall’esigenza di dover allattare e svezzare i propri piccoli, possono trasformarsi in formidabili saccheggiatori di nidi, uova e fagianotti.
Ecco dunque come la siccità può rappresentare, sia pure indirettamente, un’autentica iattura per la piccola selvaggina. Anche nel caso del fagiano saranno tuttavia i conteggi a poter dire l’ultima parola.